di Mario Giro
Il rapporto tra Cina e Africa, per anni decantato come esempio di cooperazione win-win, mostra oggi segni di crisi. Tra debiti insostenibili, progetti sospesi e critiche crescenti da parte di leader africani, l’idillio pare ormai svanito. Pechino resta il principale creditore del continente, ma il calo degli investimenti cinesi apre la strada a nuovi attori come Turchia, India e Brasile
A che punto è CinAfrica? Dopo anni di analisi sulla “sinizzazione” del continente nero, sembra che il rapporto tra Cina e Africa stia entrando in una nuova fase, meno idilliaca di quella narrata dalla maggior parte dei media occidentali. Soldi mal gestiti, progetti fermi a metà, debiti insostenibili e dissidi politici si combinano con instabilità locali e le ripercussioni della pandemia, creando uno scenario di incertezza e delusione. Rimane però innegabile che l’Africa debba molto alla Cina. A cavallo del nuovo millennio, Pechino si è affacciata sul continente con idee innovative e ingenti risorse economiche, scatenando una “corsa all’Africa” che ha coinvolto anche i più esitanti attori occidentali. Tuttavia, la luna di miele tra Cina e Africa sembra ormai terminata. Sempre più leader africani esprimono critiche verso Pechino, accusata di non aver favorito lo sviluppo endogeno del continente e di perseguire interessi unilaterali.
La gestione del debito è uno dei principali motivi di tensione: la crisi attuale non riguarda più i tradizionali attori multilaterali come l’Fmi o la Banca mondiale, ma un debito bilaterale complesso, che coinvolge non solo la Cina ma anche Paesi del Golfo e fondi privati di investimento. Sul terreno, le popolazioni africane giudicano i risultati delle collaborazioni con Pechino in base agli effetti concreti. Progetti emblematici come il porto di Lamu in Kenya o quello di Bagamoyo in Tanzania sono stati sospesi perché considerati troppo costosi. In Guinea, il porto di Conakry, assegnato inizialmente alla Cina, è stato successivamente concesso ai turchi. In Niger, la giunta militare golpista ha imposto all’impresa di Stato cinese Cnpc il pagamento di oltre 100 milioni di euro di tasse, dimostrando che Pechino non gode più di trattamenti di favore rispetto alle potenze occidentali. In molti accusano la Cina di non aver promosso l’industrializzazione dell’Africa, tanto auspicata dai governi locali. La percezione generale è che non si tratti di una cooperazione win-win, come dichiarato da Pechino, ma piuttosto di un modello che avvantaggia le grandi imprese di Stato cinesi.

Anche l’immagine della Cina, sebbene ancora globalmente positiva, ha perso l’aura euforica degli anni 2000-2010. In Zambia, per esempio, si sono registrate proteste anticinesi, un segnale che il malcontento si sta diffondendo. D’altro canto, anche a Pechino il giudizio sull’Africa si fa più cauto. Gli africani sono visti come partner difficili, sospettati di giocare su più tavoli e di non onorare i debiti. Angola, Etiopia, Kenya, Zambia ed Egitto sono tra i maggiori debitori, contribuendo a rafforzare questa percezione. Come conseguenza di tali attriti, i prestiti cinesi verso il continente hanno subito un drastico calo. La ricerca di nuovi partner è già iniziata. La Turchia si sta affermando come un attore particolarmente dinamico, puntando sul settore privato per differenziarsi dalla strategia cinese. Anche India e Brasile osservano con interesse le opportunità offerte dal continente africano. Nel frattempo, Pechino deve affrontare la complicata relazione con Mosca, il cui peso globale è in netto declino. La perdita di influenza russa in Siria ha avuto un impatto significativo anche sull’Africa, evocando parallelismi con il ritiro occidentale dall’Afghanistan.
Per la Cina, il rischio è quello di essere trascinata in un pantano geopolitico difficile da gestire. Le relazioni tra Cina e Africa sono oggi a un bivio cruciale. La cooperazione del futuro dipenderà dalla capacità di Pechino di adattare le proprie strategie, affrontando le critiche e rispondendo alle crescenti esigenze locali. In un mondo sempre più multipolare, l’Africa si conferma un campo di battaglia strategico, dove la Cina dovrà competere non solo con l’Occidente, ma anche con nuovi attori emergenti.