di Céline Nadler
Mentre l’ammissibilità di ciascun Paese africano membro dell’accordo statunitense Africa Growth and Opportunity Act (Agoa) viene rinnovata – o meno – ogni anno dagli Stati Uniti, in che modo le condizioni imposte da Washington alle controparti sub-sahariane per beneficiare di varie preferenze commerciali partecipano ai percorsi di sviluppo dell’Africa. Questa la riflessione proposta dalla piattaforma The African, a firma di Ashraf Patel, ricercatore associato presso l’Institute for Global Dialogue, con sede a Pretoria, in Sudafrica, partendo dai principali requisiti necessari per vedere rinnovata l’adesione all’Agoa.
Innanzitutto, il rispetto dei diritti umani: “Il crescente utilizzo dei diritti umani nel commercio diventa sempre più contraddittorio e insostenibile, alimentando il cinismo del Sud del mondo. Ad esempio, l’Etiopia è stata espulsa da Agoa l’anno scorso a causa della guerra nel Tigray e ha perso il suo status di beneficiario di Agoa nel gennaio dello scorso anno, eppure lo Swaziland (eSwatini, Ndr), che ha il regime autoritario più draconiano dell’Africa meridionale, trae enormi benefici dall’accesso, e il Marocco – che occupa Il Sahara occidentale è beneficiario dei principali programmi commerciali degli Stati Uniti e dell’Ue”, osserva il ricercatore, interrogandosi sui “messaggi contraddittori” inviati ai governi della regione sub-sahariana.
Patel cita poi il dumping di merci generato dall’esenzione dei dazi applicata sulle importazioni di pollo degli Stati Uniti dal Sudafrica, sottolineando l’impatto negativo di questa pratica sull’economia e sulla crescita dell’industria dei polli da carne nel Paese. Un’altra critica “di deindustrializzazione” rivolta al programma statunitense dal ricercatore riguarda la sospensione del diritto del Ruanda di esportare abbigliamento in esenzione doganale sotto Agoa, dopo che Kigali ha deciso di vietare l’importazione di abiti di seconda mano – tra le peggiori cause dell’inquinamento ambientale, Ndr – con l’obiettivo di rilanciare l’industria locale di abbigliamento.
Patel si sofferma anche sui diritti d’autore e sulla proprietà intellettuale, ricordando quanto l’industria delle arti creative e dei contenuti africana soffre “a causa della legge di emendamento sul copyright, oggetto di forti pressioni, che negherà loro i mezzi di sussistenza creativi”.
Infine, il ricercatore dell’Institute for Global Dialogue denuncia lo sfruttamento causato in Africa dagli accordi commerciali statunitensi ed europei: “Dato che gli Stati Uniti e l’Ue hanno collegato i diritti umani e del lavoro al commercio, i loro programmi commerciali, l’Agoa e l’accordo di partenariato economico dell’UE-Epa fanno molto affidamento sul concetto di zone di trasformazione delle esportazioni e zone economiche speciali per le modalità di investimento. È qui che ha luogo lo sfruttamento del lavoro su larga scala, con salari a livello locale nelle aziende agricole che sono simili alle condizioni orwelliane”, scrive nell’articolo su The African, citando un recente reportage pubblicato su Bbc.com: “Abbiamo assistito all’invasione del diritto alla libertà di associazione attraverso la creazione di zone speciali di esportazione e la creazione di leggi sul lavoro che impediscono ai lavoratori di organizzarsi in tali zone speciali. Il soffocamento degli spazi politici ha significato anche che diversi governi africani non erano liberi di intervenire negli spazi economici negli interessi dei lavoratori, ad esempio introducendo e applicando un salario minimo nazionale. La maggior parte delle aziende utilizza i salari come strumento di concorrenza”.
Eppure, la questione della quota di tasse che dovrebbe incombere alle imprese che operano e generano profitti in Africa per non ostacolare i diritti dei lavoratori è rimasta a margine dei dibattiti di Johannesburg della scorsa settimana.