In pochi anni il variopinto panorama delle città africane si è arricchito: i taxi a tre ruote di produzione indiana nipoti del nostro Apecar. Colori sgargianti, dimensioni minime, prezzo abbordabile e consumi ridotti sono i segreti di un mezzo sempre più diffuso
di Federico Monica
Chi non ricorda l’inossidabile Apecar? Il mezzo a tre ruote più famoso del mondo fu ideato dalla Piaggio nell’immediato dopoguerra e, oltre che sulle strade del nostro Paese, ebbe quasi subito una fortuna straordinaria in India e in tutto il sud-est asiatico per la sua somiglianza con i tradizionali risciò a trazione manuale nonché per l’estrema semplicità di assemblaggio e riparazione.
A oltre sessant’anni di distanza la storia si ripete. All’inizio del XXI secolo lo storico veicolo si apprestava a invadere le città africane in una versione supereconomica “made in India”. A fianco della Piaggio, che da alcuni anni ha lanciato l’Ape City – versione passeggeri del suo celebre veicolo –, il leader di settore in Africa è oggi la casa produttrice indiana Bajaj, che con il modello RE dalla spartana copertura telonata si è ormai aggiudicata i due terzi del mercato degli automezzi a tre ruote, sbaragliando la concorrenza cinese anche grazie al prezzo abbordabile del veicolo, inferiore ai 2.000 dollari. Una diffusione talmente ampia che in molti Paesi ha portato questi mezzi a essere soprannominati proprio “Bajaj” al posto del tradizionale termine tuk-tuk.
Successo clamoroso
I primi Paesi ad aprirsi ai nuovi taxi a tre ruote sono stati ovviamente quelli della costa est: dal Madagascar all’altopiano etiopico passando per Nairobi e Dar es Salaam. Ma negli ultimi cinque anni la febbre delle tre ruote ha conquistato mezzo continente raggiungendo il Mediterraneo e la costa atlantica, dove sono stati ribattezzati Kekeh (i nigeriani, come al solito, amano distinguersi e li chiamano Maruwas: a Lagos ce ne sono mezzo milione). Questi mezzi infatti sono ideali per muoversi nel caos delle città africane e la loro fortuna è destinata ad aumentare a discapito dei tradizionali taxi brousse, poco adatti a spostarsi per le vie strette e trafficate, ma soprattutto a danno delle Okada: i celebri mototaxi che da decenni affollano le strade del continente e che in molti Paesi sono finiti nel mirino per la poca disciplina dei conducenti e il numero vertiginoso di incidenti. Larghi poco più di un metro e manovrabili col tradizionale manubrio, i Bajaj hanno una portata massima di 3 passeggeri più il conducente, circa 300 chilogrammi, ma è quasi certo che gli abili taxisti africani riusciranno facilmente a superare questo limite per massimizzare le corse rinunciando a un po’ di velocità; la conformazione del furgone, poi, permette di arrotondare trasportando merci e oggetti.
Aria nuova
La diffusione di questi autoveicoli ha portato alcune città a differenziare per zone e tipi di strade l’offerta di trasporto urbano. È così che in alcune metropoli le vie centrali sono interdette ai veicoli più grandi e riservate ai Bajaj, mentre questi ultimi non possono accedere a superstrade o a strade extraurbane. Anche se non parliamo certo di mezzi ecologici, l’effetto sulla qualità dell’aria è stato positivo: i motori di nuova generazione hanno emissioni molto minori rispetto alle nuvole nere sprigionate dai vecchi e malandati taxi collettivi, la possibilità di caricare più passeggeri riduce poi il numero di corse quotidiane. Troppo poco per migliorare sensibilmente una qualità dell’aria pessima, anche se le case produttrici hanno già lanciato modelli elettrici o ibridi nell’attesa che si sviluppino le infrastrutture necessarie alla diffusione di questi veicoli.
Nel frattempo i Bajaj sono già un elemento imprescindibile del panorama urbano e la straordinaria creatività di conducenti e decoratori si è già messa in moto riempiendo le poche superfici in lamiera dei mezzi con slogan, preghiere, simboli colorati e immagini improbabili.
(Federico Monica)
Questo articolo è uscito sul numero 3/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop