di Uoldelul Chelati Dirar – foto di Isabella Balena
Nell’architettura della capitale eritrea si può rileggere la storia del colonialismo italiano e del suo razzismo. È patrimonio dell’Unesco per la sua architettura modernista, progettata da architetti visionari in epoca fascista. Ma gli eleganti edifici e l’armonioso disegno urbanistico della “Piccola Roma d’Africa” sono figli di una visione suprematista e di un progetto segregazionista. Col tempo, però, gli asmarini si sono riappropriati della loro città
Il colonialismo italiano, spesso frettolosamente liquidato come un colonialismo minore, ha lasciato tracce profonde nella società eritrea. Tra queste, una delle più evidenti, ma anche più contraddittorie, è sicuramente quella rappresentata dalle aree urbane.
Nato con una forte vocazione alla colonizzazione demografica, ovvero al massiccio trasferimento nelle colonie di manodopera italiana disoccupata, il colonialismo italiano ha investito come pochi altri nella trasformazione in senso europeo degli spazi urbani. Si è trattato di un investimento dettato non tanto da presunte intenzioni benevole delle autorità coloniali a favore della popolazione locale quanto piuttosto dalla necessità di garantire ai coloni che si trasferivano in Africa standard abitativi e un’organizzazione del territorio simili a quelli presenti in Italia, il tutto sulla base di criteri esplicitamente razzisti.
A servizio dell’ideologia
Già a partire dai primi anni del Novecento le aree urbane in Eritrea vennero organizzate secondo una logica segregazionista, dividendole in quartieri riservati ai bianchi e quartieri riservati ai neri (o sudditi coloniali, come si usava dire all’epoca). Con l’avvento del fascismo, l’impegno urbanistico dell’amministrazione coloniale aumentò significativamente. Nella prospettiva fascista, infatti, l’architettura e l’urbanistica erano viste come un laboratorio sociale, inteso a inculcare l’ideologia totalitaria tanto nei cittadini metropolitani come nei sudditi coloniali.
Nelle colonie, alla pianificazione urbanistica veniva attribuito l’ulteriore compito di disciplinare non solo il territorio ma anche la popolazione autoctona. In tale contesto, per il fascismo “disciplinare” significava essenzialmente spazzare via l’ordine urbano indigeno, che l’architetto coloniale percepiva solo in termini di disordine e sporcizia, non riconoscendogli alcuna funzione di socialità.
L’invenzione dell’apartheid
Pur se in una prospettiva rigidamente segregazionista, gli spazi urbani vennero così radicalmente ridefiniti sulla base di criteri eugenici. Pertanto comuni furono i principi ispiratori della nuova organizzazione dello spazio urbano (ovvero luminosità e areazione degli ambienti abitativi), anche se significativamente differente fu la loro realizzazione concreta in termini sia di materiali utilizzati che di superfici abitative. Risultato di queste politiche fu il grande sviluppo del centro di Asmara, l’area riservata agli italiani e più in generale alla popolazione europea, conosciuta dagli eritrei come combisctato (adattamento di “campo cintato”), dai grandi viali alberati e costellato di gioielli dell’architettura modernista, inaccessibile agli eritrei se non in veste di lavoratori domestici degli italiani.
A ciò si contrapponeva il quartiere di Abba Sciaul (dov’è nato lo scrivente), un dedalo di vicoletti in terra battuta e di abitazioni fatiscenti e densamente abitate in cui si insediavano operai, manodopera emigrata dalle aree rurali eritree o dalle vicine regioni etiopiche, vario sottoproletariato urbano, mescite di sewa (una bevanda alcolica locale prodotta domesticamente) e prostitute.
Città sospesa nel tempo
La fine anomala del colonialismo italiano, sconfitto nel 1941 dalle truppe britanniche nell’ambito della Seconda guerra mondiale e non da forze anticoloniali, ha lasciato le città eritree in una strana situazione di sospensione. Non si è infatti registrato un massiccio esodo di coloni verso l’Italia, in quanto la maggior parte della popolazione italiana rimase in Eritrea, sollecitata in questo dall’imperatore Haile Selassie, desideroso di assicurarsene le competenze industriali e amministrative. Ad Asmara rimase così una nutrita popolazione italiana, che continuò a risiedere in centro, che iniziava allora a essere abitato da una sparuta minoranza di borghesia eritrea. La fine del colonialismo non ha comportato la democratizzazione delle città: solo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta anche il centro di Asmara ha cominciato a diventare eritreo.
La rivincita degli asmarini
Paradossalmente, è stato solo con l’avvento, nel 1974, della dittatura militare etiopica del Derg che Asmara e le altre città dell’ex Eritrea coloniale hanno iniziato ad abbattere le barriere urbanistiche stabilite in età coloniale. Nel suo slancio ideologico di ispirazione marxista il Derg proclamò infatti la nazionalizzazione delle grandi proprietà e proibì il possesso di beni immobili, esclusa la casa d’abitazione. Il susseguente esodo della comunità italiana pose così fine a una situazione di privilegio protrattasi ben oltre la fine del colonialismo, e anche gli eleganti palazzi del combisctato iniziarono a popolarsi di famiglie eritree, numerose e non necessariamente abbienti, che sconvolgevano le logiche abitative precedenti.
Nel corso di questi anni si è così formata una nuova e poliedrica identità “asmarina”. Essere asmarini ha significato riappropriarsi di spazi urbani a lungo negati e ora trasformati in una parte integrante dell’identità urbana eritrea, di cui scandisce i tempi sulla base di rituali ibridi, in parte ereditati dalla cultura dei colonizzatori: il rituale del caffè espresso o del cappuccino, la “pasta saltata” al ristorante, gli anziani a passeggio in completo giacca e cravatta, e cappello a falde larghe. Lo struscio serale o del fine settimana lungo le vie centrali del combisctato è diventato la quintessenza dell’asmarinità, una continua riappropriazione di spazi un tempo negati e ora rivendicati come componenti dell’identità eritrea.
Un’estetica reinventata
Negli ultimi vent’anni Asmara è diventata anche oggetto di una speciale attenzione da parte degli appassionati di architettura modernista, e questo le è valso anche l’inclusione nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità curato dall’Unesco. Tuttavia, contrariamente alla retorica diffusa tra gli appassionati di architettura modernista che, prendendo in considerazione solo la sua architettura, la rappresentano come una bellezza dormiente (fuori dalla storia), Asmara nel tempo si è trasformata in una città cosmopolita e ironica. Gli asmarini hanno rielaborato il passato coloniale senza recriminazioni revansciste, talvolta addirittura idealizzandolo nostalgicamente, specie da parte degli anziani, che lo osservano con il filtro delle condizioni presenti.
L’urbanistica coloniale è stata così assorbita e reinventata nella quotidianità eritrea fornendo i luoghi della socialità: i bar, mantenuti nella loro estetica coloniale ma divenuti spazi non più segregati di incontro e di ozio; chiese e moschee come luoghi dello spirito; strutture come il vecchio Caravanserraglio (ora Medebber) riconvertito in un geniale spazio artigianale del riciclo e trasformazione di qualsiasi materiale; il mercato trasformato in una continua esplosione di colori e di odori. Rimangono anche, più distanti e meno socializzate per via della loro collocazione, le memorie monumentali del trascorso coloniale, i monumenti ai caduti (italiani) nelle battaglie di Dogali o di Adua, il cimitero italiano e i cimiteri che conservano le spoglie degli ascari (rigorosamente senza nome) caduti nelle tante battaglie coloniali italiane.
A tutto ciò si aggiungono i nuovi tasselli delle variegate identità della diaspora eritrea che contribuiscono ad arricchire ulteriormente la natura cosmopolita di questa bellissima città che sopravvive così con serena ironia, e qualche ruga del tempo, alla complessità della sua storia e metabolizza con saggezza le molteplici esperienze di conflitti e dittature che l’hanno segnata e continuano a segnarla.
Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop