In questi giorni, balzo avanti del numero di persone confermate contagiate, 1.029, ma grazie a Dio il numero dei morti cresce molto lentamente, sono ancora “solo” 50. Dopo 9 settimane dal primo caso è un risultato incoraggiante. Dovuto alle iniziali rigide regole date dal governo? Ormai difficile crederlo, anche perché l’osservanza delle regole si è molto allentata. In numerose situazioni, per esempio negli onnipresenti mercati all’aperto, il distanziamento fisico non è praticato. L’altro giorno vedo un insegnante di Meru, a oltre 100 chilometri da Nairobi. «Ma sei rimasto bloccato a Nairobi quando hanno chiuso i confini della città?». Mi guarda e ride: «Non conosci la nostra polizia? Con trecento scellini (meno di 3 euro) vai dove vuoi. Ma a te mzungu ne chiederebbero almeno il doppio». Se il virus si è fermato è certo stato arrestato dalla polizia… L’ordine presidenziale di sabato scorso che ha prorogato il coprifuoco non ha causato molte reazioni, tanto ormai vari negozietti e watering holes (punti di abbeveraggio per gli animali nel linguaggio dei safari; bar e birrerie nello slang ) chiudono rigorosamente alle 19, per riaprire alle 21. Mi dicono che fra i clienti non mancano poliziotti, che spendono il ricavato di una dura giornata di piccole estorsioni.
Noi invece continuiamo il nostro piccolo lavoro di riscatto delle persone. Oggi è arrivata l’ultima manciata di ragazzi presi dalla strada. Li guardavo mentre familiarizzavano con Fred Mswati, Duncan Besh, Harrison Anjere, Salmin Said, David Mubita, che erano bambini, anche piccoli, quando li ho presi dalla strada 15 o 20 anni fa. Loro si sono incamminati da anni su una strada che li ha portati ad essere giovani uomini maturi e responsabili delle proprie scelte. Gli altri sono all’inizio di un lungo cammino. Riusciranno a superare le mille difficoltà della vita, gli ostacoli creati da una società che non è centrata sulle persone, ma sul profitto, e che sia un profitto facile. Questo è diventato il mio “lavoro”. Educare al rispetto di sé stessi, per crescere nel rispetto degli altri, per arrivare a Dio. Perdersi nel Suo amore.
C’è Geoffrey che mi fa sperare. Ho scoperto che si sta dedicando a Peter, che ha subito una complicata operazione alle gambe in Italia più di due anni fa, ed è tornato a soffrire. Geoffrey ha 19 anni, era studente alla Domus Marie, «ma adesso che la scuola è chiusa mi piace stare vicino a Peter, preparagli i pasti. Così sono più contento».
Anni fa un amico mi regalò un libretto, una poetica, bellissima storia breve di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, dedicandomelo: «All’uomo che trapianta i bambini». Un complimento ogni tanto fa piacere, specialmente se è esagerato, infatti me lo ricordo a distanza di parecchi anni. I vari Besh, Geoffrey, Harry ecc. sono diventati a loro volta semplici manovali, giardinieri dell’umano. Sono loro la speranza per il futuro.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.