di Mario Ghirardi
Fino al 25 febbraio 2024 presso Palazzo Chiablese a Torino è visitabile la mostra Africa. Le collezioni dimenticate: 160 opere per la maggior parte mai esposte, tra sculture, gioielli, utensili, fotografie storiche. Ma, la vera novità di questa esposizione, consiste più nell’aver catalogato il tutto come espressione delle conquiste coloniali italiane tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e la fine dell’impero mussoliniano. Tra le opere spicca un’installazione contemporanea che vuole spingere il visitatore a riflettere sugli orrori del colonialismo: The smoking table, del celebre artista etiope Bekele Mekonnen.
Africa. Le collezioni dimenticate propone 160 opere in gran parte inedite – sculture, utensili, amuleti, gioielli, armi, scudi, tamburi e fotografie storiche – provenienti dalle collezioni delle residenze sabaude e dal Museo di Antropologia di Torino, con prestiti dal Museo delle Civiltà di Roma e da Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino. La mostra è aperta sino al 25 febbraio prossimo presso le sale di Palazzo Chiablese, in piazzetta Reale a Torino, dal martedì alla domenica con orario 10 – 19.
Tuttavia l’importanza di questa esposizione consiste più che nel mostrare oggetti storici, di cui molti anche assai preziosi come pistole rivestite d’oro e corredi equestri regali, nell’aver catalogato il tutto come espressione delle conquiste coloniali italiane tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e la fine ingloriosa dell’impero mussoliniano. Il percorso è suddiviso infatti in cinque sezioni che documentano una pagina delle relazioni tra la nuova Italia, prima sabauda e poi fascista, con il Congo Belga, l’Eritrea, la Libia, la Somalia e l’Etiopia. Quindi il ‘botto’ finale, con un’installazione contemporanea che vuole spingere il visitatore a riflettere sugli orrori del colonialismo. The smoking table, creato dall’artista etiope Bekele Mekonnen, 59 anni, che vive e lavora ad Addis Abeba, è un tavolo letteralmente fumante, a simboleggiare purtroppo la presenza viva ancor oggi delle tragiche conseguenze di quelle scelte politiche che hanno devastato il futuro di intere popolazioni e compromesso più lineari e migliori rapporti internazionali dell’Europa tutta con l’intera Africa.
«La mostra – affermaEnrica Pagella, direttrice dei Musei Reali – è il risultato di un lavoro di indagine, catalogazione e restauro che mira ad esplorare le relazioni documentate su scala globale dai nostri patrimoni. Non una mostra d’arte, ma una mostra di storia e di storie”. Fatti storici che purtroppo sono parte attiva nell’avvelenare ancor oggi la nostra vita quotidiana.
Il tavolo in particolare, riassume la curatrice Lucrezia Cippitelli, richiama l’iconografia della Conferenza di Berlino del 1884-1885 e la spartizione del continente nero da parte degli Stati Nazione europei. È un tavolo antico, che incorpora la mappa dell’Africa, gli immaginari di guerra (le scarpe maschili e gli stivali militari) e di esodi e fughe (le valigie che emergono dal tavolo). E dal tavolo esce un fumo che non fa vedere chiaramente le cose.
Nelle società contadine e tradizionali, laddove è difficile conservare il fuoco perché i fiammiferi sono un bene di lusso, questo si conserva coprendo la legna bruciata con la cenere: il fumo che ne fuoriesce è l’indizio della presenza di un fuoco che ancora brucia. Così il fumo che offusca la vista dello Smoking Table è indizio di un fuoco che ancora brucia, quello delle radici storiche del malessere del mondo globale (violenza, estrazione, appropriazione, narrazione contorta ed egemonica della storia, inferiorizzazione dei non europei) e anche della loro sopravvivenza, nascoste sotto la cenere, oggi (migrazioni, guerre, strategie estrattive). Mekonnen ci spiega in questo modo che finché non guarderemo apertamente e onestamente il passato, non saremo in grado di ripensare il presente. Il tavolo di Berlino diventa quindi un dispositivo di possibile dialogo “onesto, franco e aperto”, che inserisce questo elemento scenografico in uno spazio ricoperto di immagini che ci riportano all’occupazione coloniale del Corno d’Africa e alla sopravvivenza di immaginari imperiali.
“L’esposizione – aggiunge Cecilia Pennacini, direttrice del MAET – fa ‘riemergere’ oggetti e immagini dimenticati nei depositi di musei e residenze piemontesi analogamente a quanto accaduto più in generale per la storia coloniale italiana e i suoi abusi. Studiare, restaurare ed esporre questo patrimonio aiuta a ricordare la storia comune, che, nel bene e nel male, ci unisce all’Africa. Valorizzare questo patrimonio può offrire ai giovani di seconda generazione e agli italiani la possibilità di avvicinare le civiltà extraeuropee, acquisendo strumenti di conoscenza reciproca fondamentali per contrastare razzismo e xenofobia”.
Insomma lo scopo è la rilettura critica di quella parte di storia italiana attraverso oggetti museali, riportandola al contesto quotidiano. Il percorso è organizzato intorno alle rotte di provenienza degli oggetti, che documentano anche i destini di personaggi spesso legati alle istituzioni governative e alle imprese italiane alla ricerca di nuovi mercati.
La prima sezione, Esploratori, avventurieri e consoli, è dedicata alle raccolte che si sono formate tra il 1857 e il 1890, indagate attraverso le figure di Giacomo Antonio Brun-Rollet, esploratore delle sorgenti del Nilo in Sudan, di Vincenzo Filonardi, armatore e console a Zanzibar nel 1882, e di Giuseppe Corona, attivo in Congo, che acquisì numerosi manufatti di pregio. Tra questi ci sono alcune straordinarie sculture qui esposte, come il grande Nkisi dell’antico regno del Kongo, e lo Ntadi in pietra dalla ieratica posizione a gambe incrociate con il capo reclinato, entrambi conservati al Museo delle Civiltà di Roma, che in questo periodo sta peraltro ricatalogando le enormi collezioni dell’ex museo Coloniale, per presentarle in futuro in una luce diversa dall’aggregazione di manufatti esotici, com’era stato fatto sinora.
Le vie dello sfruttamento: ingegneri in Congo focalizza l’attenzione sulla partecipazione di ingegneri e tecnici piemontesi come Pietro Antonio Gariazzo, Carlo Sesti, Tiziano Veggia e Stefano Ravotti, all’amministrazione coloniale belga in Congo, con una selezione di armi, strumenti musicali, tessuti, monili e oggetti d’uso quotidiano. La terza sezione, Colonizzare la montagna: il Rwenzori, rilegge la spedizione di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, nella dimensione di un’appropriazione simbolica del paesaggio africano. Tra i compagni di avventura figurava Vittorio Sella, uno dei più importanti fotografi di montagna.
Dalla spartizione dell’Africa all’aggressione coloniale racconta in ultimo l’espansione del Regno d’Italia in Eritrea, avvenuta dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869, con la compravendita della baia di Assab, divenuta il primo possedimento dell’Italia in Africa. A ricordare scambi e doni diplomatici del periodo, come quelli dell’imperatore Menelik II con Vittorio Emanuele II, sono il bracciale in argento e filigrana d’oro e lo splendido tamburo di uso liturgico. A questi si aggiungono i “trofei di guerra” sottratti dall’esercito italiano ai dervisci sudanesi e ai combattenti etiopi.