di Carla Zurlo – Centro studi AMIStaDeS
Il reclutamento di persone migranti provenienti da paesi africani per combattere nei conflitti, come quello a Gaza, in cambio della residenza permanente, e le dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto di apertura) di settembre 2023, in cui ha definito i migranti africani una “minaccia reale” per Israele, riflettono un cinismo inquietante. Persone vulnerabili, fuggite da guerre e povertà, vengono sfruttate come risorse in contesti bellici e, al contempo, demonizzate come una minaccia, evidenziando il paradosso della loro esistenza. Il silenzio dell’Unione Africana e dei governi africani, spesso incapaci o riluttanti a difendere i propri cittadini, è assordante e contribuisce a perpetuare il ciclo di sfruttamento.
Nel settembre 2023, Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che le persone migranti provenienti dall’Africa rappresentavano una “minaccia reale” per il futuro di Israele. Le sue affermazioni sono arrivate dopo violenti scontri tra la polizia e alcuni richiedenti asilo eritrei a Tel Aviv, portando il primo ministro a chiedere l’espulsione delle persone coinvolte. Un anno dopo queste dichiarazioni, il quotidiano Haaretz, uno dei più autorevoli in Israele, riporta che il governo starebbe reclutando persone migranti africane per combattere nella guerra a Gaza, in cambio della residenza permanente. Questo atteggiamento riflette un cinismo inquietante: le persone migranti, non solo sono sfruttate in contesti bellici ma vengono anche demonizzati come minacce, sollevando gravi questioni riguardo ai diritti umani. Tutto ciò è un esempio lampante di sfruttamento sistematico, in cui la vita umana viene trattata come merce di scambio per soddisfare ambizioni politiche e esigenze di sicurezza di uno Stato terzo.
Secondo Haaretz, il reclutamento è organizzato “con consulenza legale da parte di esperti del ministero della Difesa”, anche se i dettagli sull’impiego dei reclutati restano vaghi. Shira Abbo, direttrice della politica pubblica di Hotline for Refugees and Migrants, afferma che circa 30.000 richiedenti asilo, perlopiù provenienti da Sudan ed Eritrea, vivono attualmente in Israele, ma meno dell’1% delle loro richieste di asilo è accolto (France24).
La Convenzione di Ginevra del 1951 definisce e tutela il diritto d’asilo, ma la realtà attuale racconta una storia diversa: molti richiedenti asilo restano intrappolati in un limbo legale, con domande di protezione internazionale pendenti da anni, aggravando la loro precarietà. Legare documenti e residenza permanente all’arruolamento nell’esercito israeliano è poco più che un ricatto mascherato da opportunità.
La strategia del governo israeliano non è una novità. Il film del 2023,Tirailleurs interpretato da Omar Sy e il cui titolo in italiano è stato tradotto con Io sono tuo padre, racconta come la Francia abbia utilizzato soldati provenienti dalle colonie africane, in questo caso dal Senegal, per combattere nelle sue guerre, offrendo incentivi monetari e in alcuni casi, l’accesso alla cittadinanza.
Cambiano le promesse ma le persone migranti provenienti dall’Africa continuano spesso a essere considerate merce. In tempi più recenti, dopo la caduta di Omar Al-Bashir nel 2019, il Sudan è precipitato in una guerra civile tra l’esercito e le Forze di supporto rapido (RSF). Molti sudanesi cercano rifugio in Libia, dove i traffici di esseri umani prosperano. La crescente domanda di manodopera a basso costo porta le persone migranti a essere vendute a milizie e proprietari, imprese e aziende. Negli ultimi anni, il conflitto in Yemen, intensificatosi nel 2015, ha visto sempre più persone migranti, provenienti principalmente dall’Etiopia, dalla Somalia, Afghanistan, Libano e Iraq, reclutati dalle milizie Houthi a volte forzatamente o in cambio di “migliori” condizioni di vita.
L’Unione Europea non è immune a questa mercificazione della disperazione. Con accordi con Paesi come la Libia e il Niger, l’Unione Europea ha negoziato il blocco dei flussi migratori verso l’Europa in cambio di finanziamenti o aiuti economici. In pratica, le persone migranti vengono trattenute in condizioni disumane nei centri di detenzione africani, in cambio di benefici economici o politici concessi ai paesi ospitanti.
Il caso di Israele pone però almeno altri due interrogativi. Primo, Come può una nazione che si proclama custode della democrazia e dei diritti umani permettere tali pratiche? Secondo, dov’è l’Africa? Dov’è l’Unione Africana? Dove sono gli stati africani nella difesa dei loro cittadini? Mentre le persone migranti africane vengono spesso sfruttate e strumentalizzate in varie parti del mondo, i loro governi e le rispettive istituzioni regionali sembrano paralizzati. Come dimostra il caso della Tunisia, alcuni membri dell’Unione Africana sono parte attiva in questo sistema di sfruttamento. Nel 2023 gli sbarchi in Italia sono diminuiti grazie agli accordi tra Ue, Tunisia, Egitto e Mauritania ma un’inchiesta del The Guardian di settembre 2024 rivela gravi violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza tunisine.
Da un lato, l’UE chiude un occhio sugli abusi per perseguire l’esternalizzazione delle frontiere; dall’altro, questa situazione solleva domande sulla responsabilità dei paesi africani e delle loro istituzioni nel sistema di sfruttamento delle persone migranti. L’Unione Africana, che in altre occasioni ha espresso preoccupazione per le condizioni delle persone migranti africane, non ha ancora preso una posizione chiara, limitandosi a generiche dichiarazioni di condanna contro il razzismo e la discriminazione.
Questo silenzio non solo favorisce l’impunità con cui gli stati terzi trattano i migranti africani, ma alimenta anche la percezione che la loro vita sia sacrificabile. È evidente che molti governi africani non sono in grado, o non vogliono, intervenire e talvolta sono i primi a lasciare i propri cittadini in balia di crisi economiche, conflitti e migrazioni forzate. Il risultato è una popolazione migrante vulnerabile, facile preda di stati che la utilizzano come forza lavoro a basso costo o come strumento di guerra.