Di Carmen Forlenza – Centro studi AMIStaDeS APS
Oggi la ONG African Parks (AP) gioca un ruolo rilevante nella tutela ambientale in Africa, attraverso la gestione di numerosi parchi. Se l’amministrazione di AP ha un impatto molto positivo sulla biodiversità e la tutela di specie a rischio, possiamo però mettere in dubbio i suoi effetti sulla popolazione che vive in queste aree? Un modello di gestione molto militarizzato e un approccio occidentale che separa nettamente le persone dalla flora e dalla fauna da proteggere ci spinge a riflettere.
Per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e della crescente perdita di biodiversità, l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, affiliata al Sistema delle Nazioni Unite, ha fissato un obiettivo ambizioso: rendere area protetta almeno il 30% della superficie terrestre dei Paesi membri entro il 2030. Se ad oggi il 15% circa del territorio africano è area protetta, si deve perlopiù ad African Parks (AP).
Questa ONG, nata nel 2003 a Johannesburg, in Sudafrica, gestisce oggi 22 parchi naturali in 12 Paesi del continente. Tra i suoi principali finanziatori c’è l’Unione Europea, ma anche USAID e la Banca Mondiale.
Il modello di gestione di AP si basa su accordi con i governi locali, che consentono all’ONG di assumere la gestione completa di un parco naturale, per periodi che variano tra i 10 e i 25 anni, impegnandosi a rispettare le leggi nazionali. Tra le varie attività, AP gestisce le strutture dei parchi e addestra i ranger locali per allontanare i bracconieri. Per garantire che i parchi siano autosufficienti, crea e controlla strutture turistiche, secondo un “business approach to conservation”, cioè un approccio aziendale alla tutela ambientale.
Effetti positivi sull’ambiente ma negativi per la comunità
L’idea che le ONG possano gestire meglio rischi di corruzione rispetto agli Stati, e rendere i parchi più attrattivi per i grandi donors internazionali, ha spinto verso questo sistema. Africa Parks non è l’unica ONG di questo tipo, ma è sicuramente la più grande attiva nella tutela ambientale in Africa.
Il sistema sembra funzionare, e riuscire a ricevere più fondi ha permesso a molti parchi gestiti da AP di far crescere specie prima quasi scomparse dalle aree in questione, grazie a un personale più numeroso, meglio formato e con un miglior equipaggiamento, oltre a più ricerca per migliorare la gestione delle specie protette.
Da uno studio dell’Università della California Santa Barbara sui risultati dei parchi gestiti dall’AP è emerso che la gestione della ONG ha ridotto la caccia di frodo agli elefanti del 35% e aumentato la presenza di volatili del 37%. Lo stesso studio ha però rilevato che in zone afflitte da conflitti armati, la presenza di un parco con la gestione AP rende più probabile che questi gruppi armati attacchino i civili residenti nelle aree circostanti, perché costretti a “dirottare” le loro attività, impossibilitati a estrarre risorse (animali, avorio, legname, ecc.) dalle aree protette. Lo stesso studio suggerisce di aumentare la partecipazione delle comunità locali, per garantire una “tutela ambientale etica”, che le coinvolga attivamente nelle decisioni strategiche dell’area e preveda indennizzi alle comunità per le perdite che affrontano quando il loro accesso alle aree protette viene ridotto o eliminato del tutto.
A questo, si aggiunge il fatto che l’AP utilizza aerei, droni e telerilevamento per monitorare le attività all’interno del parco con l’obiettivo di proteggere la fauna selvatica. Da più parti sono arrivate denunce di una eccessiva militarizzazione di queste aree, con l’AP che lede la sovranità degli Stati con cui ha accordi, perché di fatto, senza averne il diritto, in molti casi arriva ad arrestare chi viola le regole dei parchi o, conduce un monitoraggio delle frontiere non autorizzato (ad esempio quando un parco si trova al limite tra due Stati), creando ulteriori tensioni. Al momento sono attesi i risultati di un’indagine interna della AP su casi di violenza denunciati a danno della popolazione di pigmei Baka, cacciatori e raccoglitori che hanno vissuto nella foresta pluviale del Bacino del Congo per generazioni e ora soffrono abusi in nome della tutela ambientale a ridosso del Parco Nazionale Odzala-Kokoua in RDC.
Abusi perpetrati da ranger dell’AP sulla popolazione locale a partire dal 2017 sono stati denunciati, attraverso un report dedicato, anche dall’ONG britannica Survival, organizzazione che sostiene i diritti dei popoli indigeni nel mondo. Un articolo investigativo del Daily Mail News di New York ha rilanciato il tema e le denunce nel gennaio 2024.
Le guardie del parco, con formazione militare, sono incaricate di tenere fuori i Baka dall’area, spazio che per loro rappresenta l’unica fonte di sostentamento. Sono state esposte ulteriori denunce per danni alle loro case, casi di tortura, stupri e uccisioni, che coinvolgerebbero i ranger. Le vittime sarebbero state persone Baka che avrebbero oltrepassato i limiti del parco, area in cui il loro popolo da sempre ha pescato, cacciato, raccolto frutta ed erbe medicinali per la sopravvivenza.
Secondo Survival International, le popolazioni indigene, come i pigmei Baka nel bacino del Congo, proteggono l’ambiente meglio di chiunque altro, prova ne sarebbe il fatto che oggi l’80% della biodiversità del pianeta si trova in territorio indigeno e tenerli fuori dalla gestione ambientale dei parchi mediante la forza non sarebbe solo non etico, ma anche inutile, se non controproducente.
Un colonialismo 2.0?
Alcuni critici ritengono che l’AP sia un esempio di “colonialismo 2.0”, in cui una ONG creata e composta oggi perlopiù da persone non africane crea “oasi” fruibili solamente da poche persone benestanti provenienti dai Paesi del Nord Globale. La difesa di queste aree da qualsiasi tipo di intruso viene fatta con le armi dei ranger, formati da AP.
Le numerose accuse nei confronti dell’AP riguardano una visione coloniale, pensata per tenere lontani dagli animali i bracconieri africani, usando la forza e le armi, e accogliere a braccia aperte i turisti occidentali dei safari, che possono permettersi di pagare l’esperienza fino a 600 dollari a notte. Per i detrattori di AP, il loro modello per la protezione della natura è una “tutela-fortezza”, che costruisce “Stati negli Stati”.
La visione occidentale prevalente tende a voler tenere persone e animali separati per conservare un ambiente idealizzato, considerato incontaminato, un residuo dell’idea coloniale dell’Africa come paradiso terrestre, mentre nel continente si è affermata una lunga tradizione di convivenza tra il mondo umano e quello animale. Secondo quest’ottica i parchi devono essere difesi dalla popolazione locale, che rappresenta una minaccia pensando alla loro necessità di nuove terre da coltivare o utilizzare per la pastorizia, a fronte della crescita demografica.
Oltretutto, i ¾ dei manager di AP sono bianchi. Anche all’interno della stessa organizzazione diversi manager sono consapevoli di una sfida urgente: formare e accogliere nella leadership dell’organizzazione più giovani africani.
Tra i maggiori critici dell’AP c’è l’ecologista kenyota Mordecai Ogada, che definisce il suo modello “wildlife apartheid” (segregazione della vita selvatica) o “green colonialism” (colonialismo verde). Ogada parte dalla considerazione che in tutto il continente flora e fauna selvatica hanno prosperato per migliaia di anni prima dell’arrivo dei colonialisti, molti dei quali appassionati cacciatori.
Il modello AP si baserebbe quindi sull’idea erronea secondo cui non ci si possa fidare delle popolazioni indigene per proteggere terreni e vita selvatica, nonostante questi gruppi siano stati di fatto i guardiani della natura per generazioni.
L’attuale CEO (e un co-fondatore) di AP Peter Fearnhead ha detto in un’intervista che non bisogna “romantizzare” la relazione dei popoli indigeni con la natura. Ha citato ad esempio, l’uso di trappole da parte di gruppi di cacciatori-raccoglitori che possono intrappolare involontariamente gorilla e leopardi, condividendo anche la pratica locale di regalare la coda di una giraffa come segno di nozze, che ha spinto le giraffe del Kordofan al limite dell’estinzione.
È però innegabile che molti parchi nazionali africani nacquero ad opera di amministratori coloniali nella prima metà del Novecento. Il primo in assoluto fu il parco Albert, oggi Virunga, fondato nel 1925 nella Repubblica Democratica del Congo e la visione occidentale dei parchi pesa ancora oggi. Per Ogada si tratterebbe di una “nuova corsa all’Africa”, con l’accaparramento delle sue risorse naturali e caricando il peso della tutela ambientale sulle spalle delle africane e degli africani, che sono coloro che creano meno inquinamento e cambiamento climatico a livello globale.
Fonti
- J.C. Servant, Le Monde Diplomatique, 2020, «Who is the land for? Africa’s ‘national parks’ run for wealthy few»;
- Survival International, FAQ on the Baka, African Parks & Survival’s campaign, https://www.survivalinternational.org/articles/FAQs-Baka-African-Parks#WhatDoesSurvivalThink ;
- D. Pilling, Financial Times, 2024, «The battle to control Africa’s national parks»;
- H. Tasoff, The Current, 2024, «Outsourcing conservation in Africa»;
- O. Van Beemen, Internazionale, 2024, «Cattivi custodi»;