di Claudio Agostoni – foto di Alain Schroeder / Hemis / Afp
Viaggio alla scoperta dei quartieri black della capitale belga. A Matongé regnano i congolesi con la loro eleganza ed esuberanza. Molenbeek è un distretto arabo e marocchino. Altre zone sono abitate da immigrati di Senegal, Guinea, Camerun e Ruanda. Ma nella Bruxelles africana tutto è in movimento…
“Porte de Namur! Porte de l’amour?”. È il quesito che campeggia su un bizzarro murale: in realtà un enorme telo appeso alla parete di un edificio all’inizio di rue Chaussée de Wavre, appena fuori della Porta di Namur, nel cuore di Bruxelles. L’autore è il congolese Chéri Samba, uno degli artisti più critici del regime zairese di Mobutu. L’opera ritrae l’ingresso di Matongé, quartiere africano di Bruxelles che ha iniziato a strutturarsi intorno al 1960, in contemporanea con l’indipendenza dal Belgio della Repubblica democratica del Congo.
Sotto la scritta è raffigurato uno spaccato della vita di questo scampolo di Congo precipitato nella capitale belga: donne intente nell’arte di intrecciare i capelli, ragazze con abiti in tessuti wax dai colori vivaci e pattern geometrici, coppiette che si baciano, avventori di bar i cui tavolini sui marciapiedi pullulano di bicchieri colmi di birra Jupiler… Il nome stesso del quartiere è mutuato da una vivace area di Kinshasa: epicentro della musica congolese e tempio spirituale e fisico del movimento della “Sape” nel decennio 1970-80.
Expo 1958
Un secolo fa, queste stesse strade erano il centro politico dell’allora colonia belga del Congo. Avevano qui la loro residenza il ministero delle Colonie, la Banca belga per l’Africa, l’Hotel Barbanson, dove varie amministrazioni coloniali avevano i loro uffici. Per queste vie era però improbabile vedere un africano. La prima volta fu nel 1958, in occasione dell’Esposizione Universale. Dal Congo arrivarono decine di pigmei prelevati dal cuore della foresta pluviale: per settimane furono esibiti al pubblico pagante dell’Expo, dove era stato ricostruito un “tipico” villaggio africano di capanne. I pigmei dovevano danzare vestiti con gonnellini di rafia, impugnando archi e frecce, in una sorta di zoo umano.
Dal Congo quell’anno arrivò persino un coro polifonico, che celebrò un concerto che creò molta curiosità tra i belgi. Tra loro, anche Monique van der Straten, un’aristocratica filantropa che, rivolgendosi agli artisti, dichiarò: «Chi desidera venire a studiare in Belgio l’anno prossimo è il benvenuto». Fu presa in parola, e l’anno dopo alla porta di casa sua bussarono otto congolesi. Altri venti nei mesi successivi. La signora van der Straten decise di acquistare per loro un edificio a Saint-Josse-ten-Node. Ma ben presto anche quella struttura divenne troppo piccola, così nel 1961 aprì un ostello per gli studenti africani che arrivavano, sempre più numerosi, nella capitale belga. Era in rue Alsace-Lorraine, cuore dell’attuale Matongé, e venne battezzata La Maison Africaine. Con il passare degli anni, nella rete di strade a sud della Chaussée de Wavre è cresciuta una comunità composta da immigrati provenienti da Senegal, Guinea, Camerun e Ruanda, che hanno seguito la scia dei pionieri congolesi.
Crogiolo di popoli
Oggi è in corso un processo di gentrificazione, che vede il vicino distretto europeo, con il suo Parlamento e diverse altre istituzioni, trasformare il quartiere in un’area dallo status diverso. La maggior parte degli africani emigrati a Bruxelles in realtà non vive a Matongé, e sempre più asiatici, soprattutto indiani e pachistani, stanno rilevando le attività. L’atmosfera che si vive nel quartiere, però, particolarmente nei fine settimana, è ancora molto black.
L’eleganza regna sovrana e i marciapiedi diventano passerelle open air, dove è facile incrociare qualche sapeur, membro della Société des ambianceurs et des personnes élégantes (Sape).
Per le strade le lingue si mescolano armoniosamente: wolof, inglese e arabo incrociano dialetti difficili da classificare. Le bancarelle dei negozi pullulano di frutta e verdura importata dall’Africa, l’afrore dei pesci essiccati si alza dai bancali di bizzarre drogherie e i numerosissimi parrucchieri sono affollati di clienti. Ritmi e groove variegati escono dagli smartphone dei passanti ed è molto fornito il cartellone di iniziative culturali e di concerti. Non è difficile riuscire ad ascoltare canti in lingua kongo, accompagnati dal suono di strumenti tradizionali. Frequenti anche le celebrazioni religiose legate ad ataviche tradizioni.
Un indirizzo imperdibile è il Kuumba (kuumba.be), un centro sociale che per nome si è scelto una parola swahili che significa “creare” e come mission ha lo sviluppo dell’energia e della creatività che emergono quando culture e comunità si incontrano. Organizza seminari di musica e danza, concerti, film, dibattiti, esposizioni e anche tour guidati.
Una piccola Marrakech
Per scoprire un altro quartiere africano, ci si può rivolgere al Centre Communautaire Maritime (centrecommunautairemaritime.be), un attore chiave nella vita socio-culturale, artistica ed educativa del distretto marittimo di Molenbeek (a Bruxelles non c’è il mare, ma nel quartiere c’è un porto fluviale con relativa dogana). Area di fortissima immigrazione, prevalentemente maghrebina, si trova a circa cinque minuti dalla Grand Place, il cuore storico della capitale belga (ma anche una delle piazze più belle d’Europa).
Conosciuta come “la Piccola Marrakech” di Bruxelles (non a caso molti la chiamano Moolenkech), negli ultimi anni era diventata tristemente famosa come una delle basi europee dei militanti dell’Isis. In realtà questo Comune della cosmopolita Bruxelles è un contesto urbano estremamente complesso e differenziato al suo interno: a forti dinamiche di chiusura e conflitto si intrecciano esperienze importanti di evoluzione sociale, culturale e urbana.
Uno dei modi migliori per conoscere il quartiere è pedalare tra le sue strade e per farlo si può ricorrere a Molenbike(molenbike.be), una piattaforma condivisa che offre soluzioni logistiche di bici locali ed eque. Una realtà che ha contribuito alla nascita di À vélo mesdames, una proposta targata Dar al Amal, la “casa della speranza” delle donne di Molenbeek. Dal 2003 ad oggi, questa realtà vélo-educatrice, in partenariato con diverse realtà attive e radicate nella vita dei quartieri, ha messo in sella centinaia di donne di differenti età, provenienze e fede religiosa (nonostante la cultura islamica consideri poco “conveniente” l’utilizzo della bicicletta da parte dell’altra metà del cielo, sono molte le donne velate che partecipano alle iniziative di A vélo mesdames).
Un museo imperdibile
E in bicicletta si può facilmente raggiungere Tervuren, immediata periferia cittadina, dove è attivo il più grande museo al mondo dedicato al continente africano. Circondato dal verde e ospitato in un vecchio palazzo del re Leopoldo II, l’AfricaMuseum ha riaperto i battenti nel gennaio 2019 (praticamente negli stessi giorni in cui a Dakar, dopo sette anni di lavori, veniva inaugurato lo splendido Museo delle civiltà nere) sulle ceneri del vecchio Museo reale dell’Africa centrale. Quest’ultimo era figlio dell’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1897: l’anno successivo la mostra temporanea si trasformò in collezione permanente sul Congo.
La vecchia struttura era stata voluta dal re come mezzo di propaganda per osannare i meriti della monarchia nella colonizzazione belga di Congo, Ruanda e Burundi. Nella nuova versione del museo la storia coloniale viene finalmente raccontata in tutta la sua violenza grazie a foto e documenti di appoggio. Un esempio del superamento dello sguardo a senso unico è dato dalla sezione dei film coloniali destinati al pubblico africano. Premesso che non erano girati da registi “indigeni”, queste pellicole non erano montate allo stesso modo di quelle destinate ai bianchi. I neri non potevano rispondere allo “sguardo” imposto dai bianchi e non potevano parlare della loro vita reale. Ebbene, nel nuovo museo ai figuranti congolesi delle pellicole coloniali vengono chiesti i ricordi di quella loro esperienza, mentre ai cineasti congolesi di oggi è stato chiesto quale “sguardo” portano nelle loro pellicole di quegli anni.
Il nuovo allestimento pone l’attenzione anche sulla diversità linguistica nell’Africa centrale attraverso mappe, dipinti popolari, frammenti di suoni e video. I visitatori possono ascoltare le storie della narrazione orale riflettendo sul loro significato e messaggio, capendo l’importanza della parola che era associata a specifici strumenti musicali. Vengono affrontati anche temi contemporanei come le diaspore, la biodiversità e il cambiamento climatico. I numeri dell’AfricaMuseum testimoniano la sua imponenza: tre chilometri di archivi, 12.000 oggetti etnografici, maschere, sculture, 10 milioni di animali dagli insetti ai rettili e mammiferi e imbalsamati, tra cui un elefante. Per la visita, affrettarsi. Le autorità della Rd Congo hanno annunciato l’imminente presentazione di una richiesta ufficiale di restituzione di opere e documenti.
Questo articolo è uscito sul numero 6/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.