Sono impressionanti le analogie tra il sistema schiavista imposto in epoca coloniale dal monarca belga ai danni della popolazione congolese per la produzione del caucciù e le terrificanti condizioni in cui oggi versano i minatori artigianali impiegati nell’estrazione del cobalto che fa gola ai colossi dell’automotive e dell’hi-tech. La storia sembra ripetersi: oggi come ieri il nostro benessere poggia sullo sfruttamento
di Nina Fresia
Lo stop deciso dall’Unione europea alle auto a benzina e diesel potrebbe essere rinviato a dopo il 2035, ma la produzione dei motori a combustibili fossili andrà a sparire. Una scelta irrevocabile che porta con sé un’altra certezza: l’Africa sarà sempre più fondamentale per la nostra transizione ecologica. Oggi gran parte dei metalli strategici necessari a realizzare le auto elettriche arriva dal cuore del continente. L’esempio più eclatante è il cobalto, minerale essenziale per la produzione delle batterie agli ioni di litio – in quanto ne garantisce durata e stabilità – contenute in auto con motore elettrico (ma anche in computer e cellulari). Si stima che la sua richiesta crescerà tra le dieci e le venti volte entro il 2050. Più della metà delle riserve mondiali di cobalto si trova nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), in particolare nelle province meridionali dell’Alto Katanga e del Lualaba.
L’estrazione artigianale del cobalto coinvolge migliaia di minatori di ogni età che hanno scarse garanzie di sicurezza ed economiche. I livelli di brutalità dei metodi di lavoro a cui sono sottoposti oggi rimandano indietro nel tempo, al passato di un Paese dalla storia travagliata, segnata dal colonialismo e dalla privazione delle tante risorse che un territorio così vasto (più di due milioni di chilometri quadrati di superficie) ha da offrire.
In epoca coloniale, dal 1885 al 1908, questa immensa regione rientrava nello Stato Libero del Congo, un possedimento personale del re belga Leopoldo II basato sul terrore e sullo sfruttamento brutale inferto alla popolazione locale. La più terribile delle iniziative leopoldine fu il massiccio impiego forzato di migliaia di uomini, donne e bambini – ridotti in schiavitù – nell’estrazione di caucciù dalle liane presenti nella foresta pluviale. Il monarca belga aveva una sola preoccupazione: alimentare il mercato europeo affamato del materiale, diventato proprio in quegli anni utile alla realizzazione dei primi pneumatici.
Sebbene distanti più di cento anni l’una dall’altra, la politica della gomma nello Stato Libero e quella del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo presentano alcuni punti di contatto.
Re Leopoldo, considerando la colonia come un territorio di cui poteva disporre a proprio piacimento, lo concedeva a società private a cui era strettamente legato (che fosse per mezzo della proprietà di alcune quote o di intermediari personali nei consigli di amministrazione) e che ne garantissero un efficiente sfruttamento.
Il modello si è riproposto anche dopo l’indipendenza: la famiglia Kabila (alla presidenza del paese con Laurent-Désiré prima, dal 1997 al 2001, e con il figlio Joseph poi, fino al 2019) e altri attori statuali (come i governatori delle province minerarie) hanno utilizzato il proprio potere per arricchirsi personalmente, anche grazie agli introiti derivanti dalle centinaia di miniere che costellano il Paese, i cui diritti sono nella maggior parte dei casi concessi a società straniere.
Secondo alcune stime, l’intero sottosuolo congolese varrebbe potenzialmente circa 24 trilioni di dollari, ma la spesa annuale del governo di Joseph Kabila non ha mai superato i 5 miliardi di dollari e lo stesso ex presidente congolese, ha rivelato un’inchiesta condotta da Bloomberg, avrebbe ricevuto almeno 138 milioni di dollari tramite una banca verso cui dirottavano denaro le compagnie cinesi, nonché 20 milioni da Gécamines, cioè la società mineraria statale.
Le inchieste sul campo, di ieri (E. D. Morel con “Red Rubber”) e di oggi (Siddharth Kara con “Cobalt Red”), ci riportano le difficili modalità con cui le materie prime che facilitano la nostra vita vengono estratte: sia nel caso della gomma, sia in quello del cobalto i lavoratori vanno incontro a molteplici rischi. Se la manodopera al servizio delle società concessionarie in epoca leopoldina era costretta ad inoltrarsi nella foresta per più giorni e a scalare alberi alla ricerca di rampicanti contenenti caucciù da incidere, i minatori artigianali oggi devono infilarsi in stretti cunicoli per estrarre da profondi tunnel un minerale più puro. Si tratta, quindi, in entrambi casi di un lavoro manuale, pesante e pericoloso svolto sia da adulti che da minori senza la garanzia di adeguati dispositivi di sicurezza, come imbracature o caschi.
Tanto le condizioni di vita quanto i pericoli associati alle due attività sono però diversi sotto alcuni punti di vista: il sistema delle quote per la riscossione della gomma imposto dai funzionari europei ai lavoratori locali è diverso da quello composto da creuseurs (chi scava), négociants (chi trasporta e vende i minerali) e comptoirs (chi acquista i preziosi materiali) oggi in vigore nella Repubblica Democratica del Congo. Sebbene la paga dei minatori sia subordinata alla quantità di minerale estratto giornalmente, i lavoratori congolesi di fine Ottocento e inizio Novecento raramente ricevevano in cambio qualcosa per il proprio servizio: generalmente, l’estrazione della gomma veniva praticata sotto minaccia e ricatto, con il sequestro della propria famiglia come incentivo per il lavoro e l’amputazione di un arto in caso di mancato raggiungimento della quota o di ribellione.
I lavoratori artigianali della filiera del cobalto, invece, scelgono in autonomia di lavorare nel settore, anche se spesso, con l’allargamento dei siti minerari e la conseguente riduzione del terreno adatto all’agricoltura, si tratta dell’unica scelta possibile per sostenere una famiglia. Inoltre, pur mantenendo un livello di violenza nettamente inferiore, una sorta di ricatto potrebbe essere individuato nella «servitù per debiti» raccontata da Siddharth Kara: i minatori con il proprio lavoro (che non viene valutato secondo un equo valore di mercato) ripagano un debito contratto forzosamente con le cooperative del settore proprio per avviare l’attività in maniera legale, cioè in linea con quanto sancito dal Codice minerario congolese.
Le ricostruzioni storiche ci indicano che a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la popolazione congolese si dimezzò (circa dieci milioni di vittime) per un insieme di fattori quali morti sul lavoro, malattie ed emigrazione. Pur non disponendo di stime certe circa le conseguenze dell’attività di estrazione del cobalto, sappiamo che gli incidenti, soprattutto quelli che coinvolgono rudimentali tunnel sotterranei, si verificano ogni settimana, stando a quanto dichiarano le autorità della provincia di Lualaba. E che l’incidenza di bambini nati con malformazioni era già di 5.84 ogni 1000 nascite tra il 2009 e il 2010, così come sono in crescita le malattie correlate all’esposizione con sostanze chimiche nocive. Infine, secondo dati raccolti da UNHCR, nel mondo sono più di un milione i rifugiati e richiedenti asilo provenienti dalla RDC.
Leopoldo II, che usò il colonialismo per foraggiare le proprie personali finanze, e le Big Tech, che traggono vantaggio dalla transizione verde, hanno in comune il problema dell’immagine: il fatto che la materia prima fondamentale per i propri profitti, che si tratti di gomma o cobalto, sia estratta da lavoratori in condizioni brutali può arrecare un danno reputazionale in grado di far crollare quegli stessi guadagni. Il monarca si era tutelato a priori grazie alla costruzione di un’immagine virtuosa di sé, cioè di liberatore dalla schiavitù e benefattore del popolo congolese, mentre i colossi della tecnologia, come Apple, tentano di ripulire la catena di approvvigionamento rendendo, ad esempio, pubblici i nomi dei propri fornitori, aderendo a iniziative internazionali volte a rendere la filiera produttiva più pulita o promettendo di impiegare solo cobalto riciclato nei propri prodotti.
Ma rimane di fatto difficile avere garanzia dell’eticità dell’estrazione del materiale impiegato per la costruzione di batterie agli ioni di litio: una volta che il cobalto è giunto al processo di raffinazione e ancor di più quando è ormai inserito all’interno dei motori elettrici dei veicoli che acquistiamo, è impossibile sapere se è stato estratto in modo regolamentato e sicuro o da un bambino appiattito nei meandri di un tunnel. E così si compromette il nostro proposito di realizzare una società migliore, meno tossica e più “green”: la transizione verde che vogliamo mettere in pratica rischia infatti di essere macchiata di rosso. E di risultare così, nel lungo periodo, tanto insostenibile quanto molte pratiche inquinanti.
Le foto relative all’estrazione del cobalto in Congo sono di Luca Catalano Conzaga e sono stratte da un reportage pubblicato sulla rivista Africa Questo che fa parte di un progetto fotografico, Land and Ocean grabbing, promosso dall’Associazione Witness Image e sostenuto dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti.