Il cemento, materiale resistente, che non richiede particolare manutenzione, sta modellando e cambiando il volto delle città africane. Dietro le distese di blocchi grigi, la cui produzione risulta fra le sorgenti di emissioni in atmosfera più impattanti, si cela un giro d’affari che non dà segni di rallentamento e che ha portato multinazionali e grandi imprese locali ad aprire stabilimenti sparsi in tutto il continente.
di Federico Monica
Da un giorno all’altro le città piccole e grandi del continente cambiano volto, nuove case o muri di cinta spuntano in continuazione allargando a dismisura l’impronta urbana. Il colore simbolo di questi nuovi quartieri che fioriscono nelle periferie da Cape Town al Cairo non può che essere il grigio: grigio delle lamiere ondulate ma soprattutto del cemento, vero e proprio protagonista del boom edilizio senza precedenti che sta investendo l’Africa.
Gran parte delle nuove costruzioni non sono costituite da grossi investimenti né da housing pubblico: è la piccola edilizia privata a fare la parte del leone con distese di villette familiari o anonime palazzine in cui il cemento è l’elemento chiave. L’idea radicata a tutte le latitudini è quella di un materiale resistente ed “eterno”, che non richiede le attenzioni e le manutenzioni dell’argilla o di altre tecniche tradizionali e che proprio per questo rappresenta la “modernità” urbana, contrapposta alla vita nelle campagne.
Non solo pilastri, fondamenta o intonaci: il 90% dei mattoni utilizzati per costruire è fatto proprio di cemento: grandi blocchi grezzi con due o tre ampi fori al centro che li rendono più leggeri e maneggevoli, l’ideale per poter costruire con rapidità impressionante pareti e interi edifici che spuntano in pochissimi giorni. Poco importa se l’estetica e ancor di più il comfort degli ambienti interni, fra calore e umidità, lasciano a desiderare, la corsa alla casa non sembra fermarsi davanti a nulla e il panorama delle periferie urbane sempre più estese sembra confermarlo.
Un impatto enorme che non interessa solo il paesaggio ma soprattutto l’ambiente: dietro alle cataste di blocchi grigi ammucchiati lungo le strade in attesa di un acquirente si cela l’aspetto delicato degli impatti della produzione del cemento. Un giro d’affari immenso che non dà segni di rallentamento e che ha portato multinazionali e grandi imprese locali ad aprire stabilimenti sparsi in tutto il continente, ribaltando in un ventennio la dipendenza dalle importazioni estere.
Non a caso è proprio il cemento uno dei core business dell’uomo più ricco dell’Africa, il nigeriano Aliko Dangote. Nata come società di importazione e di produzione alimentare la Dangote Group ha iniziato a investire nella produzione di cemento a partire dagli anni ’90, oggi ha inaugurato il più grande impianto di produzione del continente ed è leader di mercato in dieci paesi africani, dal Senegal alla Tanzania.
Nella piccola città di Obajana, fra Lagos e Abuja, il nuovo impianto della compagnia si sviluppa su oltre 200 ettari, più della superficie della città stessa. Una decina di chilometri più a nord colline intere sono state sbancate per alimentare con le rocce calcaree necessarie a produrre il cemento gli enormi altiforni che fumano perennemente scurendo il cielo mentre centinaia di camion si accalcano nei piazzali e lungo le strade circostanti.
Per produrre la polvere grigia infatti le rocce frantumate vanno portate a una temperatura di circa 1500 gradi in enormi forni rotanti alimentati a combustibili fossili, molto spesso a carbone. Non a caso la produzione di cemento è annoverata fra le sorgenti di emissioni in atmosfera più impattanti e l’aria nei pressi dei cementifici è spesso irrespirabile sia a causa dei fumi sia delle polveri emesse durante l’estrazione del calcare.
A loro discolpa le grandi compagnie di produzione nel continente, obbligate almeno sulla carta ad applicare protocolli e soluzioni per ridurre gli impatti ambientali, sostengono l’importanza di un’autonomia produttiva dell’Africa in grado di abbattere le emissioni dovute ai trasporti per importare cementi da paesi asiatici. Un obiettivo non lontano ma reso più difficile dall’invasione di cementi importati a basso costo e di scarsissima qualità, spesso prodotti alimentando gli altiforni con rifiuti anche tossici e quindi potenzialmente pericolosi per la salute dei futuri abitanti delle case. Per contrastare questi fenomeni e rafforzare la produzione locale alcuni governi come Sudafrica e Nigeria hanno introdotto dazi pesanti o addirittura limiti strettissimi alle importazioni, causando però un aumento dei prezzi talvolta insostenibile.
Quello dei costi è un tema non secondario: secondo un report della World Bank del 2016 il prezzo medio del cemento nel continente è superiore del 186% rispetto alla media mondiale. Per un sacco da 50 kg in Kenya si spendono oltre 5 euro, più che in Italia; dopo la crisi dovuta al Covid in Nigeria il prezzo raggiunge addirittura i 7 euro ma le cifre possono cambiare sensibilmente a seconda della distanza dai centri urbani, dalla condizione delle strade o dalla sicurezza della regione.
Poco importa, i cantieri si fermano temporaneamente in attesa che i prezzi tornino ad abbassarsi, dove possibile si accumulano scorte per non soffrire le fluttuazioni del mercato e le città africane continuano a crescere, nutrendosi come mostri insaziabili della preziosa polvere grigia.
(Federico Monica)