di Uoldelul Chelati Dirar
Già nell’Ottocento, filosofi e politici celebravano l’Italia come erede della civiltà romana e custode di una superiorità morale e culturale. La retorica classica – esaltata poi dal fascismo – giocò un ruolo chiave nel legittimare l’espansione coloniale di Roma e nel giustificare il dominio sulle popolazioni assoggettate.
Un aspetto interessante delle politiche coloniali italiani è quello legato al ruolo svolto dalla tradizione classica nelle strategie di organizzazione del consenso (in Italia) e di assoggettamento delle popolazioni (nelle colonie). Abbastanza conosciuto nelle sue manifestazioni del periodo fascista, meno noti sono gli elementi di continuità rispetto alle fasi precedenti dell’espansione coloniale italiana avviate già nella seconda metà dell’Ottocento. È in questo periodo che nelle società occidentali, in diverse forme, si afferma l’idea di una incolmabile diversità tra Europa e Africa dovuta alla presunta superiorità dell’Europa rispetto al resto del mondo. In questo dibattito la tradizione classica ha spesso svolto un ruolo centrale.
In ambito italiano un contributo centrale si trova nell’opera del filosofo Vincenzo Gioberti il quale affermava che l’Italia sarebbe l’unica legittima erede di antiche civiltà tra cui quella romana e questo ne farebbe la “nazione madre del genere umano”. Successivamente, il legame con le radici classiche diventa uno sfondo costante della retorica intesa a di legittimare l’espansione coloniale. La stessa scelta del presidente del Consiglio Crispi di denominare Colonia Eritrea i possedimenti acquisiti lungo la costa africana del Mar Rosso, fu influenzata dal suo capo di gabinetto Carlo Dossi (fine letterato e diplomatico) che con il nome Eritrea (rosso in greco antico) ricollegava idealmente quei territori con la tradizione classica. Questo aspetto riemerge con ancora più intenso vigore durante l’invasione della Libia del 1911. In tale occasione il poeta Giovanni Pascoli pronunciò la famosa orazione intitolata “La grande proletaria si è mossa “ in cui affermava il diritto dell’Italia ad espandersi in virtù delle esigenze occupazionali della sua forza lavoro (altrimenti costretta all’emigrazione) ma soprattutto per la sua supremazia morale e culturale, erede della tradizione romana, in quanto “aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori”. L’invasione della Libia, già parte dell’Impero romano veniva così presentata all’opinione pubblica italiana in continuità con i trascorsi classici e quindi come un’opera legittima di civilizzazione di popolazioni descritte come barbare.
Tuttavia, la classicità romana, oltre a essere utilizzata per rappresentare la cultura e la società italiane come centrali ed egemoni nello scenario europeo, svolgeva un ruolo fondamentale anche nelle strategie di assoggettamento delle popolazioni colonizzate. Questa strategia emerge con chiarezza nei manuali preparati per gli studenti ‘indigeni’ delle scuole italiane dove, già nelle prime edizioni del 1912 l’Italia viene costantemente presentata come la culla della civiltà, ‘la migliore nazione al mondo”, ed il legame con l’eredità classica costantemente sottolineato a legittimare la rivendicazione coloniale di svolgere un ruolo civilizzatore che vedeva nella scuola lo “strumento principale di penetrazione pacifica e di conquista morale”. I testi prodotti per i piccoli allievi propongono costantemente modelli di ruolo intesi a promuovere un’etica del lavoro improntata alla laboriosità, opposta alla presunta indolenza e pigrizia delle popolazioni locali. Di nuovo la laboriosità e grandezza della civiltà italiana vengono rappresentate come derivazione della grandezza della tradizione romana attesta dalle sue prestigiose vestigia archeologiche.
L’avvento del fascismo segna un cambiamento sostanziale delle politiche scolastiche in colonia, coerentemente con la riforma del sistema scolastico perseguita in Italia. La scuola viene definita come “strumento di penetrazione morale” e di “educazione della massa indigena” oltre che di formazione di fedeli truppe coloniali, preziose per il rilanciato progetto di espansione imperiale sulle orme dell’antica Roma.
Allo stesso tempo il fascismo critica duramente le precedenti politiche pedagogiche condotte in colonia che accusa di nozionismo astratto e di scarsa efficacia. Viene così prospettata, coerentemente con l’accentuata logica segregazionista del nuovo corso, una netta separazione tra curricula metropolitani e quelli coloniali. Nel modello pedagogico fascista per le colonie la classicità romana assume un ruolo ancora più centrale sia come fonte di legittimazione delle ambizioni coloniali fasciste che come ulteriore prova del presunto incolmabile divario di civiltà tra le popolazioni locali e la nazione italiana. Ovviamente la rilettura della storia operata in contesto coloniale era selettiva e ignorava deliberatamente la natura estremamente articolata e stratificata delle classicità greca e romana, oscurando le costanti e non univoche relazioni sviluppatesi tra l’antica Roma e la Libia o le coste eritree del Mar Rosso così come il ruolo centrale di personalità africane in questa storia. Basti pensare tra i tanti all’imperatore Settimio Severo nato nell’attuale Libia da genitori di origini puniche e berbere che da generazioni aveva acquisito la cittadinanza romana.