Chi pensava che l’articolo di Lancet, critico verso l’uso terapeutico della clorochina nel trattamento del Covid-19, e la successiva decisione dell’OMS di sospendere in via cautelare la sperimentazione, avrebbero messo la parola fine alla querelle scientifico-farmaceutica che va avanti su scala planetaria ormai da settimane, si sbagliava. E non solo perché buona parte dei Paesi africani (Algeria, Marocco, Senegal, Camerun, Benin, RDC, Congo, …) che stanno usando questa molecola, da sola o in abbinamento a altre, ha deciso di proseguire per la propria strada.
Quello che è successo è che un nutrito numero di scienziati, dopo avere esaminato con attenzione lo studio proposto dalla celebre rivista scientifica, si è reso conto che troppe cose in quel testo non funzionavano: dal rifiuto degli autori di dare accesso ai dati all’assenza di una “revisione etica”, passando per una serie di stranezze che riguardavano in particolare l’Africa e l’Australia. Rispetto alla prima, è apparso strano che quasi il 25 per cento dei casi di Covid-19 e ben il 40 per cento dei decessi considerati si fossero verificati nelle strutture monitorate da Surgisphere, la società di Chicago autrice dello studio. Passando alla seconda, i dati riferiti risultano incompatibili con i rapporti del governo e includerebbero “più decessi in ospedale di quanti si fossero verificati in tutto il paese durante il periodo di studio”.
A suscitare altre perplessità, il fatto che l’articolo sia stato costruito sostanzialmente su big data anonimi, informazioni raccolte attraverso canali digitali, prescindendo totalmente dall’osservazione clinica e da possibilità pratiche di riscontro.
Così questi scienziati, 120 per la precisione, hanno scritto una lettera aperta indirizzata agli autori dello studio e al direttore di Lancetcon cui chiedono all’OMS o anche a un’altra organizzazione “neutrale” di analizzare l’articolo. L’Oms, pur in assenza di una risposta ufficiale, qualcosa deve avere raccolto, tanto da avere annunciato ieri la ripresa delle sperimentazioni. Tra i firmatari ci sono diversi scienziati africani, il professor Oumar Gaye dell’Università Cheik Anta Diop di Dakar, Jean Bosco Ouedraogo, che è uno dei maggiori esperti di malaria del Burkina Faso, o Philip Bejon, direttore del Kemri Wellcome Trust Research Programme di Nairobi. Ci sono però anche docenti e ricercatori di prestigiose università europee e non necessariamente sostenitori del cosidetto protocollo Raoult. Alcuni tra loro nutrono dubbi sull’efficacia della clorochina, ma non considerano questo un buon motivo per avallare un articolo zoppicante. È il caso del professor François Balloux, direttore dell’Istituto di Genetica all’University College di Londra, che al riguardo ha pubblicato una serie di tweet chiarendo la sua posizione.
Interpellato dalla testata senegalese Dakaractu, Oumar Gaye è stato sibillino rispetto alla (prima) decisione dell’Oms: «L’organizzazione mondiale della Sanità ha sospeso il suo studio Solidarity e ha raccomandato la sospensione di altri studi sull’idrossiclorochina. Ma ci sono varie ricerche attualmente in corso, alcune delle quali hanno prodotto risultati preliminari piuttosto rassicuranti, soprattutto in Africa. Pure noi pensiamo che sia opportuno agire con cautela e non prendere decisioni affrettate, anche rispetto a questi lavori. Le questioni sollevate nella lettera aperta dimostrano quanto la cautela sia raccomandabile».
E per quanto riguarda la volontà del Senegal di andare avanti per la propria strada, Gaye trova che sia assolutamente sensata: «Il Ministero della Salute riporta regolarmente numerosi casi di guarigione di pazienti trattati con idrossiclorochina. Non ci sono segnalazioni di gravi effetti collaterali. Ricordiamo che il protocollo adottato qui in Senegal e coordinato dal professor Moussa Seydi, prevede la somministrazione del trattamento alla comparsa dei primi sintomi e non nei casi gravi».
Dakaractu ha contattato Surgisphere per avere informazioni sulle 30 strutture africane passate al vaglio. Come risposta ha ricevuto prima un no, “per ragioni di riservatezza”, poi la seguente comunicazione: «Surgisphere è un aggregatore di dati e una società di analisi dei dati che fornisce ai ricercatori clinici un database in tempo reale con oltre 240 milioni di incontri anonimi con pazienti di oltre 1.200 organizzazioni sanitarie in 45 paesi. Non può esserci alcun controllo sui dati di origine, poiché vengono ricevuti completamente anonimi dai loro partner sanitari. Non c’è modo quindi di identificare nuovamente i 671 istituti inclusi nello studio di Lancet e qualsiasi tentativo in tal senso costituirebbe una violazione degli accordi sull’uso dei dati». Nel frattempo molti dubbi sono stati sollevati anche sulla professionalità di questa società americana.
Ciò che appare sempre più evidente è che non si tratta solo di visioni scientifiche contrapposte. C’è molto altro: interessi economici, (dis)equilibri politici e una certa tendenza anche mediatica a sminuire ciò che arriva dall’Africa. La maggior parte degli interventi, sino ad ora, si è concentrata sulla fragilità dei sistemi sanitari del continente e sugli ipotetici scenari apocalittici futuri. Ferma restando la gravità della situzione, poca o nulla attenzione è stata prestata a quel che il continente, grazie ai suoi medici e ai suoi ricercatori seri e preparati, ha fatto sino ad ora. E in un momento in cui tutti si brancola nel buio questa rimozione suona particolarmente paradossale.
Solo pochi pochi giorni fa, la scrittrice Afua Hirsch, sulle pagine del Guardian, rifletteva su queste tematiche chiedendosi perché i successi africani nell’ambito del coronavirus sono sistematicamente sottostimati? Senza volere cadere nel vittimismo, si tratta di una questione che, in attesa della risposta di Lancet e di una qualche posizione più ferma da parte dell’Oms, non può essere ignorata.
(Stefania Ragusa)