Un anno fa, il 2 ottobre 2023, Angelo Ferrari, giornalista e scrittore, colonna della nostra rivista, è scomparso all’età di 63 anni, a seguito di una lunga malattia. Per più di trent’anni ha viaggiato per il continente africano raccontandone le tragedie e i principali conflitti, ma anche le storie di riscatto e le speranze dei suoi popoli. Per ricordarlo pubblichiamo oggi degli estratti del suo ultimo libro, “Non so come andrà a finire” (OGzero, 2023).
Capitolo 16 “Spari a Bujumbura”
In cima a una collina di Bujumbura, allora capitale del Burundi, sorge il centro psichiatrico. Ma oggi non ospita solo i malati mentali, è diventato anche un campo profughi. La lunga guerra civile ha costretto migliaia di persone a fuggire dalla capitale e a rifugiarsi nei bananeti intorno alla città, a camminare chini per la paura delle pallottole, frutto delle rappresaglie dei militari. In kirundi, la lingua locale, si dice kabundabunda che letteralmente significa «camminare a quattro zampe come i cani». E, dopo anni di guerra, è ancora così. Entrando nel centro psichiatrico, lo spettacolo è lacerante. Centinaia di persone ammassate tra i malati, nel cortile, nelle piccole tende e con le poche cose che ognuno è riuscito a portare con sé nella concitazione della fuga: una stuoia, una coperta, qualche vestito e nulla più. Sul retro, invece, due volte alla settimana il centro si anima di centinaia di persone. Donne, bambini, vecchi – gli uomini, giovani o adulti che siano, rimangono nei bananeti, sanno di essere il bersaglio dei militari – escono dai nascondigli ricavati nelle piantagioni e scendono dalle colline per la distribuzione del cibo: riso e arachidi. Poche cose, ma per chi non ha nulla è comunque molto.
Nel piazzale polveroso del centro psichiatrico si accendono subito i fuochi, e d’improvviso sembra di essere in un normale villaggio. Le donne cucinano, i bambini giocano con i loro coetanei. Intanto inizia la coda, ordinata, per il cibo. Tutti si mettono in fila, senza discussioni, e attendono il loro turno. Solo i bambini non resistono e continuano a correre anche tra le gambe degli adulti, che rimangono seri e immobili in attesa del loro turno.
Mentre c’è chi dignitosamente aspetta un pugno di riso, nella strada principale di Bujumbura si combatte. Gli spari risuonano fin sopra la collina. Raffiche di mitra, colpi di mortaio e il fumo che sale verso l’alto. A ogni detonazione, nel retro del centro psichiatrico, cala il silenzio, che dura qualche secondo. I bambini smettono di giocare e hanno un sobbalzo, poi tornano a correre. Sembra di essere davanti a un televisore con in mano il telecomando del videoregistratore: ogni tanto si ferma l’immagine, magari per vedere un particolare in più, poi si va avanti. I bambini ricominciano a muoversi da dove si sono fermati. I colpi di mortaio, ormai, sono diventati familiari. Sono seduto su un ceppo, proprio di fronte al magazzino del cibo. Mi passano davanti quei volti di vecchi, scavati dall’età, dalla paura e dal dolore di aver lasciato le loro case. I volti delle donne, i loro corpi piegati dalla fatica del lavoro e con i piccoli appena nati sulla schiena. Dei bambini si divertono a rubare un pugno di arachidi cadute dal grande sacco mentre l’addetto le distribuisce. Scappano via, facendo gimcane tra le persone per sfuggire all’addetto che, col bastone – ma solo brandendolo in aria –, cerca di afferrare i piccoli furfanti. Un gioco, ma anche l’imitazione dei grandi che sono in fila. I bambini, la fila la fanno a modo loro, cioè non la fanno per niente. Anche un fatto tragico, come questo, diventa un gioco.
Proprio mentre sono seduto sul ceppo, mentre cerco di fissare quelle immagini, quei volti, quelle persone nella memoria, un bimbo di cinque o sei anni mi si avvicina e si siede proprio vicino al mio piede. Dice qualcosa nella sua lingua, ma io non capisco e lui non comprende la mia, di lingua, e allora mi guarda con due occhi così. Poi mi mostra un pugno nel quale nasconde poche arachidi, il bottino del suo innocente furto. Richiude la mano: quelle arachidi saranno il suo contributo alla famiglia. Prima, però, ne toglie una e la mette da parte. Inizia a scavare una buca, proprio vicino al mio piede. Guarda la buca, guarda l’arachide, guarda me. Poi prende l’arachide, la mette nella buca e la ricopre di terra. Mi guarda soddisfatto, il sorriso è largo. Io riesco solo ad accarezzarlo. Ha piantato l’arachide.
Una cosa inutile, non crescerà mai. Magari lo sa anche lui. Ma, forse, è un modo per raccontare la sua speranza in una possibilità di vita migliore. Intanto nella strada principale di Bujumbura si continua a sparare. La guerra non si ferma. Ma quel bimbo ha negli occhi l’orgoglio di aver raccontato a un bianco che anche lui vuole lavorare per il suo futuro, piantando un’arachide, appunto. O almeno a me piace vederlo così. La distribuzione del cibo, intanto, è terminata. Padre Modesto, un missionario saveriano che ho accompagnato in questa missione, mi fa un cenno: dobbiamo tornare in città. Faccio presente che sulla strada si spara. Lui minimizza. È vero, gli spari sono terminati. Ma rimangono tutti i dubbi e anche un po’ di paura. Modesto non sente ragione: prendiamo la nostra Panda 4X4 e ci dirigiamo verso la strada, l’asse principale di entrata in città.
Lo scenario è surreale. Non c’è una macchina. Tutto, appunto, tace. Ma la calma dura poco. Da una parte e dall’altra, riprendono le schermaglie tra ribelli ed esercito regolare. Non importa se in mezzo c’è una Panda con due bianchi a bordo. In macchina cala il silenzio. Arriviamo indenni, almeno così ci pare, al primo posto di blocco dell’esercito. I militari ci guardano passare, non osano fermarci, tanto rimangono interdetti nel vederci. Superato il blocco, ci rilassiamo un po’. Modesto rompe il silenzio e dice: «Hai recitato l’Angelo custode?». «Più e più volte», rispondo. Arriviamo alla missione giusto in tempo per il pranzo e lì ci accorgiamo, con un certo stupore, che la macchina è stata colpita. Nessun commento. Mangiamo. Alla fine del pranzo Modesto mi propone di accompagnarlo nei bananeti, vuole fare visita ai rifugiati. Declino l’invito. Preferisco portarmi a casa l’immagine degli occhi del bambino conosciuto sul retro del centro psichiatrico. Ma forse – anzi, sicuramente – è paura.