Migranti al tempo del coronavirus. È una questione che viene poco trattata. Si parla molto di quelli che si trovano in Europa e che intendono rientrare nei loro Paesi, poco invece di coloro che si trovano nella “terra di mezzo”. Cioè di tutte quelle persone in “viaggio” verso l’Europa in condizioni di vulnerabilità. In Africa, proprio per l’emergenza del coronavirus, molti Paesi hanno deciso limitare i movimenti delle persone tra un Paese e l’altro o di chiudere completamente le frontiere. I migranti, quindi, si trovano in condizione di non poter procedere né verso la meta che si erano prefissati né verso i Paesi di origine. Persone che potremmo definire “senza patria”. Abbiamo imparato a conoscere le storie di coloro che hanno intrapreso il viaggio e ai quali veniva tolto tutto, i documenti, i telefonini, diventando totalmente prigionieri nelle mani dei trafficanti di uomini, privati di ogni dignità. Ora, anche se non ci sono numeri che lo certificano, queste stesse persone si trovano sole e in condizioni di vulnerabilità.
L’Unione Europea e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno avviato un’iniziativa congiunta per la protezione e la reintegrazione dei migranti lungo le rotte nei Paesi considerati di transito: Burkina Faso, Mali, Mauritania, Libia, Niger e Ciad. Tutti Paesi colpiti dall’epidemia. L’Ue ha stanziato un finanziamento di ulteriori 200mila euro per la nuova iniziativa, che fornisce uno strumento per rispondere all’urgente necessità di assistenza dei migranti bloccati in situazioni di vulnerabilità. Il fondo – Assistenza regionale diretta per i casi vulnerabili nella regione dell’Africa occidentale (Rdaf) – coprirà i costi di assistenza, ritorno e reintegrazione di molti migranti bloccati. Finora 156 persone hanno beneficiato dell’Rdaf. L’assistenza dovrebbe essere estesa anche ai migranti bloccati in altre nazioni considerate Paesi d’origine – Camerun, Costa d’Avorio, Guinea e Nigeria – che fino ad ora non avevano ricevuto alcuna assistenza. Una goccia nel mare. Secondo stime Onu, sono milioni le persone che si spostano all’interno del continente, molto di più di quelle che intraprendono il viaggio della speranza verso l’Europa.
Con l’emergenza coronavirus, inoltre, sono molti i migranti regolari con un lavoro in Europa intenzionati a fare ritorno nei rispettivi Paesi. I consolati di molti Paesi africani, infatti, sono stati invasi dai cittadini che chiedono informazioni su come poter rientrare in patria (in particolare quelli di Marocco ed Egitto, ma anche la sede diplomatica della Nigeria ha ricevuto analoghe richieste). Una corsa contro il tempo anche perché, ormai, sono molti i Paesi che hanno cancellato i voli e chiuso i confini, proprio per impedire il contagio. I primi casi, infatti, hanno coinvolto cittadini provenienti proprio dai Paesi europei più colpiti. E qui i numeri, non tanto di coloro che vogliono rientrare ma di quelli che hanno chiesto asilo nel 2019, sono chiari. Secondo un ultimo rapporto di Eurostat, l’Italia resta al quinto posto in Europa per domande di asilo, anche se queste solo calate del 34 per cento. Nei 27 Stati membri dell’Unione Europea sono stati 612.700 i richiedenti asilo che per la prima volta hanno chiesto protezione internazionale. Tornare, però, nei Paesi di origine risulta assai complicato, come è accaduto agli africani presenti in Cina al momento dello scoppio dell’epidemia. Rispetto ai cittadini europei – che avevano messo in campo piani di evacuazione – gli africani hanno avuto meno fortuna. Il Sudafrica, infatti, aveva annunciato che non avrebbe evacuato i propri cittadini. I grandi investimenti di Pechino in Africa hanno creato un vero e proprio flusso migratorio verso le città cinesi. Gli africani costituiscono ora la seconda più grande popolazione di studenti stranieri in Cina, dietro a quelli provenienti da altre parti dell’Asia (secondo il Ministero dell’Istruzione cinese, nel 2018 erano oltre 80mila in tutto il Paese). Da qui, inoltre, la grande preoccupazione di molti Stati africani che il virus potesse invadere l’intero continente.
E da ultimo, ma non meno grave, sono i migranti ammassati nei centri di detenzione libici, veri e propri lager. Non vi è dubbio che queste realtà possono rappresentare delle vere e proprie bombe biologiche. Secondo Libya Observer, il premier libico riconosciuto dalla comunità internazionale, Fayez al-Sarra, ha dichiarato lo stato di emergenza in Libia, ordinato la chiusura dei porti e degli aeroporti del Paese. Le vie di fuga, dunque, sono chiuse. Nonostante ciò le partenze non si sono arrestate. Anzi. Secondo il sito di informazioni internazionali Ofcs.Report, il rischio di «rimanere infettati in Libia è motivo di ansia», visti gli standard della sanità libica non adeguati, e quindi i migranti «oltre che dalla guerra fuggono anche dal rischio di essere contagiati e costretti a curarsi in loco». Il centralino Alarm Phone, come riferisce Repubblica.it, negli ultimi giorni ha segnalato diverse imbarcazioni in difficoltà in zona Sar libica e maltese. E a preoccupare sono i cosiddetti sbarchi “autonomi”: a Lampedusa nell’ultima settimana sono arrivate 150 persone. Le ong, anche se a malincuore, hanno comunicato la sospensione delle missioni nel Mediterraneo. Insomma, il coronavirus ferma anche le navi umanitarie.
(Angelo Ravasi)