Abiba è una ragazza di 20 anni con una vita un po’ travagliata. Una madre presente, il padre che non c’è più, il patrigno che non le vuole un gran bene. Lei si è sempre arrangiata. Una delle tante ragazze che si vendevano per sopravvivere. La scuola non l’ha conclusa. Poi è rimasta incinta. Vive a Oddos, uno dei quartieri più poveri di Grand-Bassam, l’ex capitale coloniale della Costa d’Avorio. Lì ti devi arrangiare. La vita ti è ostile, non ti regala nulla. Devi conquistarti tutto, soprattutto la dignità. Le occasioni le devi prendere al volo e non sempre, quasi mai, hanno i contorni dei sogni migliori. Abiba, ragazza tenace, ha trovato la forza di risollevarsi, di iniziare a costruirsi un futuro. Il sogno di una vita migliore sta assumendo, piano piano, i contorni della realtà.
Abiba, originaria del Mali anche se è nata in Costa d’Avorio, è figlia dell’immigrazione post-indipendenza. Il padre della patria Félix Houphouët-Boigny decise di lanciare un appello ai Paesi africani di fresca indipendenza: «In Costa d’Avorio la terra è di chi la lavora, anche se si tratta di immigrati». E così in Costa d’Avorio si è diretto un afflusso costante di maliani, burkinabè, guineani, attratti dal miraggio di un appezzamento di terra da lavorare senza dover pagare l’affitto. Un sogno che probabilmente ha portato il bisnonno o il nonno di Abiba a cercare fortuna da queste parti. Ma spesso i sogni, col passare delle generazioni, si infrangono contro la realtà.
Abiba l’ho incontrata nella cioccolateria della Comunità Abele di Grand-Bassam, Choco+, dove lavora. Tutti i giorni arriva, svolge le sue mansioni. Lo sguardo attento, gli occhi sorridenti. Poi nel pomeriggio torna a casa dal suo bambino, si occupa della casa, fa da mangiare, poi a letto. E il giorno dopo ricomincia tutto uguale. Ma per Abiba non è tutto uguale. È consapevole che lavorare a Choco+ non è solo una chance, ma la possibilità di costruirsi un futuro.
«Se non ci fosse stata mia madre io sarei morta», mi dice Abiba. Il dramma è cominciato proprio quando ha scoperto di essere incinta. Il padre del futuro figlio era un poco di buono. «Quando ero incinta – racconta – eravamo insieme, è venuto quando ho partorito, mi ha promesso di dare dei soldi per il bimbo e anche per pagare il parto cesareo. Promesse al vento. Non ha mai tirato fuori un soldo. Meno male che c’era mia madre». Per la festa di fine ramadan il padre le ha dato 10mila franchi Cfa (circa 7,5 euro), «ma non erano sufficienti, perché il bambino deve avere due o tre vestitini per la festa». E anche questa volta è intervenuta la mamma che, però, ha posto delle condizioni: «Se stai con lui e poi fai delle stupidaggini io non ti aiuto più». E così Abiba ha capito che il suo futuro non poteva essere legato a quel ragazzo.
Persa l’opportunità di andare a scuola, ad Abidjan ha iniziato a lavorare in un mercato, ma anche lì non è andata bene. «A Grand-Bassam ho quindi cominciato a fare la domestica da dei libanesi, ma dopo un mese e mezzo di lavoro non mi avevano pagato e così mia madre mi ha detto di mollare». Insomma la classica storia di una domestica che diventa schiava, ma anche qui la madre ha avuto un ruolo determinante. La svolta, quella vera, arriva dopo l’apertura della cioccolateria della Comunità Abele. Aprire una cioccolateria nel Paese che ha il record mondiale di produzione di fave di cacao sembra scontato, normale. E invece non è così. La maggior parte degli ivoriani non conosce il sapore del cioccolato, l’80 per cento del cacao viene, infatti, esportato. Choco+ è uno dei pochi casi di produzione di cioccolato in Costa d’Avorio.
L’intuizione della Comunità Abele di Grand-Bassan ha “salvato” la vita di Abiba. Di lei come degli altri giovani, quattro, che lavorano a Choco+. Un progetto artigianale, avviato nel 2018, che oggi riesce a produrre circa 500 chilogrammi di cioccolato al mese, 100 per cento ivoriano. Le fave vengono acquistate da un piccolo produttore locale che ha una piantagione a soli 20 chilometri da Grand-Bassam: insomma, tutto a chilometro zero. Un’impresa sociale che ha introdotto nella popolazione ivoriana il consumo di cioccolato cominciando a introdurre l’idea che il Paese può essere non solo esportatore ma anche produttore del prodotto finito.
Uno dei temi che spesso vengono affrontati in Africa, infatti, è proprio quello delle risorse che finiscono per essere trasformate in Paesi terzi, facendo perdere quel valore aggiunto che la materia prima può rappresentare per l’Africa stessa. E l’esperienza di Choco+ ha proprio questo valore aggiunto al quale si aggiunge l’impatto sociale che può avere sulla popolazione. Negli ultimi mesi, infatti, si sono moltiplicate le visite guidate per gli alunni delle scuole di Grand-Bassam. Un modo per introdurre la cultura del cioccolato. Visite guidate che si sono interrotte per via dell’emergenza coronavirus e per le misure di distanziamento sociale. La produzione, tuttavia, continua.
Le fave di cacao per la produzione di cioccolato vengono acquistate da piccoli produttori della regione, il Sud-Comoé. Coltivatori che vengono aiutati a migliorare il prodotto, che viene pagato loro 100 franchi Cfa in più rispetto al prezzo minimo fissato dallo Stato che è di 750 franchi Cfa al chilogrammo. Un’esperienza che sta crescendo e che raggiungerà presto il pareggio di bilancio: l’obiettivo, oltre a quello della vendita diretta, è aggredire il mercato della grande distribuzione.
Abiba, dagli occhi che sorridono, ha trovato a Choco+ l’occasione del suo riscatto umano e sociale. «Il mio sogno è aprire un conto in banca per cominciare a risparmiare. Per questo ho chiesto alla Comunità Abele di non darmi tutto lo stipendio e accantonare la differenza. Chissà, forse un giorno riuscirò a costruire una casa tutta per me».
(Angelo Ravasi)