di Ornella Ordituro – Centro studi AMIStaDeS
Dal punto di vista religioso ortodosso, è “ebreo” chi nasce da madre ebrea o chi porta a termine un processo di conversione. L’attuale dibattito, che coinvolge le interpretazioni ortodosse e progressiste, dimostra un’apertura del mondo ebraico a riconoscere alcune comunità africane come appartenenti all’ebraismo.
Le origini ebraiche delle comunità africane
Una delle più grandi è quella degli ebrei etiopi Falasha (“esiliati” in aramaico), provenienti principalmente dalle regioni nord-orientali dell’Etiopia, al nord del lago Tana, o più a est, nelle zone del Tigrè. Appartenenti al gruppo Beta Israel dell’Etiopia, discendenti dalla tribù di Dan, traggono le loro origini da storie antichissime. La versione maggiormente riconosciuta dal rabbinato fa risalire la discendenza dei Beta Israel alla tribù dei Dan, una delle “tribù perse israelite” deportate dagli Assiri a Gerusalemme nel 722 a.C. Si crede poi che questa di Dan sia una delle tre tribù di Israele fuggite nel continente africano, in Nubia. Una tradizione orale sostiene, infatti, che i Falasha provengano da un gruppo di ebrei dissidenti, che si rifiutarono di seguire Mosè all’uscita dall’Egitto o forse scapparono in Africa dopo la distruzione del primo Tempio di Salomone. Secondo le scritture della Torah, invece, la storia ebbe inizio con la Regina di Saba che ebbe un figlio da Re Salomone, chiamato Menelik, fondatore del Regno di Etiopia; il quale divenuto adulto volle far visita al padre Salomone. Al suo ritorno ad Aksum gli fu affidata l’Arca dell’Alleanza. La celebre storia della regina di Saba è anche contenuta nel Kebra Nagast (il più importante libro religioso etiope). Questo avvenimento è, inoltre, ricordato dai riti della Chiesa etiope, in occasione di Ghenna e Timkat (Natale ed Epifania nel rito copto).
Le comunità ebraiche in Africa
Nel 1975, il governo dell’allora Primo ministro Yitzhak Rabin riconobbe per la prima volta le origini ebraiche delle comunità africane, innanzitutto quella etiope, che permise loro di usufruire della Legge del Ritorno (Aliah), peraltro, ancora valida per ogni ebrea/o del mondo. È ben difficile distinguere il nucleo di verità storica dalle sovrapposizioni di natura leggendaria ma è nota la presenza di gruppi di ebrei africani che intendono “tornare” in Israele: gli Zakhor di Timbuctu; circa tremila nigeriani di etnia Igbo affermano la loro identità ebraica da oltre un decennio, sostengono di appartenere a una delle dieci tribù perdute di Israele; la comunità Beith Israel in Ghana rispetta le tradizioni ebraiche senza dimenticare i costumi e la cultura africana, proprio come la comunità ebraica di Capo Verde. La tribù dei Rusape in Zimbabwe e il gruppo dei Beth Yeshorun in Camerun rivendicano l’appartenenza alla religione ebraica dall’inizio del 2000; i Tutsi di Ruanda e Burundi si dichiarano diretti discendenti del regno giudaico di Havilah, a cui la Bibbia fa riferimento, proprio come i Baloua in Repubblica Democratica del Congo; in Uganda, la tribù degli Abayudaya (letteralmente “il popolo di Giuda”) non ha legami di sangue con Abramo e Giacobbe, né rivendica alcuna lontana ascendenza giudaica risalente al re Davide, eppure, ha rapporti coi rappresentanti diplomatici d’Israele ai fini di un riconoscimento ufficiale da parte dei rabbini ortodossi. Provenienti dall’Africa del Sud, i Lemba (gruppo di lingua bantu) rivendicano una discendenza giudaica ed osservano riti, cultura e tradizioni semite; godono di ogni diritto e tutela come tutti i cittadini israeliani.
La loro integrazione in Israele
Gli africani dovrebbero essere ormai parte del tessuto israeliano e, infatti, – a differenza dei palestinesi-israeliani, degli ortodossi (haredim) ebrei o dei cristiani cattolici e ortodossi israeliani – adempiono anche all’obbligo del servizio militare a cui sono sottoposti dai 17 ai 20 anni. Seppur riconosciuti come ebrei a tutti gli effetti, tuttavia, lamentano di subire delle discriminazioni nei loro confronti, la loro integrazione – a trent’anni dalle grandi ondate di immigrazione (l’operazione Mosè tra il novembre del 1984 e il gennaio del 1985; l’operazione Saba nel marzo del 1985; l’operazione Salomone dal 1989 al 1991) – resta ancora un tasto dolente della politica interna israeliana. Forse – come sostiene parte della società civile più sensibile al tema – sia perché rappresentano una piccolissima minoranza (sono meno del 2% dell’intera popolazione israeliana) sia per ragioni economiche e sociali. Sono la minoranza ebraica meno scolarizzata, retribuita e rappresentata di tutto il Paese. Per far fronte al problema soprattutto demografico, allora, un nuovo e ultimo piano di evacuazione, denominato Tzur Yisrael (la roccia israeliana), è stato proposto nel 2021 dalla Ministra per Aliyah e Integrazione Pnina Tamano-Shata – la prima donna ebrea-etiope parte del Knesset israeliano (il Parlamento). Il piano prevede 3000 arrivi dall’Etiopia a Israele. Nel solo giugno 2022, il governo israeliano ha dichiarato di averne accolti oltre 180. Ma ciò non sarà sufficiente per riuscire a soddisfare la richiesta di Aliah da parte degli ebrei falasha, bersaglio di nuove violenze, alla luce del conflitto attualmente in corso in Etiopia.
Il patto di alleanza tra Africa e Israele
Negli ultimi anni, l’ex premier Benjamin Netanyahu aveva paventato l’idea di sospendere l’arrivo in Israele delle comunità ebraiche africane per mancanza di fondi ma, come detto, il piano è stato in gran parte sviluppato e, per quanto possibile, lo si sta anche portando a termine. E il legame di Netanyahu con l’Africa era più forte di quanto si potesse immaginare. Era stato proprio l’ex Primo ministro a spingere il suo governo a instaurare le relazioni diplomatiche con Uganda, Ruanda, Sudan e Marocco (nell’ambito degli Accordi di Abramo), Repubblica Democratica del Congo (con l’apertura di una missione diplomatica ed economica a Gerusalemme), Ciad, Malawi, Burundi, Guinea Equatoriale, Ghana e Costa d’Avorio, soprattutto per la cooperazione in chiave anti-terroristica islamica – che si sta diffondendo anche in Africa – e la ricerca in ambiti comuni quali agricoltura, salute e cyber security. Anche l’ex ministro israeliano degli Esteri, Avigdor Lieberman, durante la celebrazione dei 50 anni di relazione tra il Kenya e Israele aveva dichiarato l’importanza dell’Africa come obiettivo della politica estera del governo e non aveva nascosto il desiderio di avere nuovamente l’ammissione di Israele come osservatore dell’Unione Africana. In particolare, poi, i rapporti diplomatici si sono consolidati in occasione del quarantesimo anniversario dell’impresa militare ad Entebbe per liberare gli ostaggi israeliani in Uganda, nel luglio 1976 – operazione in cui Netanyahu perse suo fratello Yonathan.
L’alleanza tra Israele e gli Stati africani è ormai sigillata dal ritorno dello Stato ebraico all’interno dell’Unione Africana. Il governo di Tel Aviv era stato estromesso, per la pressione di alcuni Paesi membri, dal ruolo di osservatore nel 2002, al momento del passaggio dell’Organizzazione dell’Unità africana (OAU, 1963-1999) all’attuale Unione Africana. Per anni, i paesi africani hanno sostenuto la causa palestinese anche per un sentimento comune di lotta all’occupazione; infatti, non sono poche le rimostranze dei suddetti paesi contro Israele, all’interno di consessi internazionali. La stessa Palestina, paese osservatore all’interno dell’Unione Africana dal 2013, ha opposto resistenza a ritorno di Israele.
L’agenda 2063 dell’Unione Africana
L’Unione Africana nasceva come Organizzazione internazionale regionale nel 1963, con lo scopo di liberare il continente dalle rimanenti vestigia della colonizzazione e dell’apartheid; promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati africani; coordinare e intensificare la cooperazione allo sviluppo; salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati membri e promuovere la cooperazione internazionale. Il piano generale attuale dell’Organizzazione intende trasformare l’Africa in potenza globale nel prossimo futuro attraverso una governance democratica che porti pace e sicurezza all’interno dell’intero continente. Il quadro strategico mira al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo inclusivi e sostenibili entro il 2063; si tratta di una manifestazione concreta della spinta panafricana per l’unità, l’autodeterminazione, la libertà, il progresso e la prosperità collettiva sotto l’ideale del panafricanismo.
La genesi dell’Agenda 2063 è la consapevolezza, da parte dei leader africani, della necessità di (ri)focalizzare e (ri)definire le priorità dell’agenda africana: dalla lotta contro l’apartheid e colonialismi – obiettivi al centro dell’Organizzazione precursore dell’Unione Africana – al raggiungimento dell’indipendenza politica ed economica del continente. In parallelo con gli obiettivi delle Nazioni Unite, l’Unione Africana intende dare priorità allo sviluppo sociale ed economico inclusivo e sostenibile, all’integrazione continentale e regionale e, tra le altre sfide, riposizionare l’Africa come attore dominante.
Per approfondimenti
https://www.youtube.com/watch?v=bhsWRCyrBmo
https://au.int/agenda2063/sdgs
https://www.africarivista.it/la-strategia-israeliana-nel-corno-dafrica/188766/
https://ilcaffegeopolitico.net/48512/il-patto-di-alleanza-tra-comunita-africane-di-ebrei-e-israele
https://www.jpost.com/opinion/article-709039