di Marco Aime
“Guerre tribali”, “conflitti etnici”, “scontri razziali”. Per spiegare le ragioni delle violenze tra comunità diverse si tirano in ballo contrapposizioni identitarie e culturali. Ma alla base di ogni dissidio ci sono sempre ragioni economiche e ambizioni di potere. La divisione dei gruppi umani non ha base scientifica
Il termine “etnia” gode di una certa fortuna presso i giornali di questi ultimi anni: “tribù” appare poco politically correct e forse metterebbe in crisi le coscienze evoluzioniste di chi scrive, qualora si trovasse a doverlo applicare a serbi, bosniaci, azeri o armeni, mentre “popolo” sa troppo di retorica vetero-marxista per rientrare nel moderno lessico dei nostri media. Pensiamo anche agli aggettivi relativi a questi due termini: “popolare” non è certo un complimento e tende ad essere assimilato a “cosa di poco valore intrinseco”, mentre “etnico” è assai più alla moda e ci induce a pensare ai valori per noi migliori delle culture lontane e vicine (anche se associato a “pulizia” ha subito una variazione di significato fortissima).
Come afferma l’antropologo francese Jean-Loup Amselle a proposito dell’Africa, a creare le etnie sono spesso stati gli amministratori coloniali e gli antropologi, entrambi spinti (con finalità diverse) dal desiderio di classificare i gruppi locali. Applicando, poi, politiche diverse ai diversi gruppi, eccoli nascere, concretizzarsi, irrigidirsi, farsi reali laddove erano caratterizzati da identità fluttuanti.
In Mali, alcuni Peul si sono sedentarizzati nel corso del tempo e hanno via via assunto identità e cognomi bambara. Poi, per vicende storiche o ecologiche hanno ripreso il nomadismo e con esso la vecchia identità peul. Se però si scrivono monografie dove si definisce il peul nomade, chiaro di pelle, con lineamenti camitici, se si applicano politiche diverse ai presunti diversi gruppi, la differenza si consolida e ognuno finisce per essere condannato a essere ciò che gli altri pensano egli sia.
La sempre maggiore enfasi posta sulle culture e le identità, e sulle loro presunte radici, che caratterizza il dibattito attuale conduce a una crescente attenzione al locale e ai localismi. Accade poi che alcuni localismi, impugnati da qualche élite dotata di sufficiente potere, vengano gonfiati di aspirazioni globali: le regioni vogliono diventare stati, i dialetti lingue e così via. Tutto questo in nome dei cosiddetti popoli o delle culture locali che rivendicano autonomia nei confronti degli stati-nazione.
Ecco come nascono molti dei “conflitti etnici” che sembrano caratterizzare la nostra epoca e che spesso celano, sotto la patina della cultura, ben altre spinte, ben altri interessi. L’apartheid sudafricana è sempre apparsa ai nostri occhi come uno degli esempi più aberranti dell’etnicizzazione dei rapporti tra gruppi. L’antropologo francese Claude Meillassoux ci offre però una lettura interessante e acuta di questo dispositivo grazie al quale il capitalismo sudafricano è riuscito a sfruttare al massimo la manodopera locale a salari minimi. Più che etnicizzare i neri sudafricani, li si è proletarizzati.
A creare la dicotomia tutsi/hutu è stata una politica coloniale differenziata, che ha favorito gli uni a scapito degli altri. Il conflitto allora diventa sociale, politico, non etnico. In Africa si parla spesso di etnicizzazione della politica, intendendo il fatto che spesso i partiti esprimono interessi di un gruppo etnico. In realtà quei partiti esprimono gli interessi di alcune lobby in quanto tali, non in quanto etnie. Siamo pertanto di fronte non a una etnicizzazione della politica, ma a una politicizzazione dell’etnia.
La competizione per le risorse dà vita in molti casi a modelli di organizzazione che esprimono, dietro a una veste etnica, le istanze di un gruppo di interesse. In molti Paesi il declino economico e la conseguente perdita di posti di lavoro ha causato l’indebolimento dei soggetti politici che tradizionalmente rappresentavano i lavoratori e in molti casi il malcontento di questi ultimi è stato catalizzato da movimenti politici che alla solidarietà di classe hanno sostituito una solidarietà che potremmo definire etnica. L’etnicizzazione dei rapporti sociali avviene nel momento in cui cessa di esistere quel pluralismo che funziona quando le linee di divisione tra gruppi sono neutralizzate e frenate da affiliazioni multiple, mentre scompare quando le linee di fratture economico-sociali coincidono, sommandosi e rinforzandosi l’una l’altra.
Raramente gli umani entrano in conflitto perché hanno costumi o culture diverse, solitamente è per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché quello dell’etnicità diventa il mezzo più efficace per farlo. Continuare a leggere queste situazioni in chiave di etnicità significa però spostare su un presunto piano culturale il dibattito, evitando di affrontarne le radici socio-economiche. Etnicizzando dei gruppi o dei rapporti sociali, si tende in realtà a mascherare la loro posizione subordinata o marginalizzata in rapporto alla società globale e, allo stesso tempo, a cancellare le differenze interne dei gruppi etnicizzati in termini di classe, risorse o potere.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop