di Mario Giro
Le Nazioni Unite restano la piazza del mondo dove hanno uno spazio i Paesi tutti, anche piccolissimi, o quelli non democratici e irrispettosi dei diritti umani. È l’unico modo di ottenere un’assemblea globale dove tutti siano presenti e con la possibilità di influire su tutti
L’Africa al centro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno. Ci si aspettava uno show-down tra russi e ucraini al Consiglio di sicurezza, ma Volodymyr Zelensky non ha voluto accettare l’incontro ed è uscito per non incontrare il ministro russo Sergej Lavrov, il quale ha reciprocato. Di conseguenza le altre guerre sono balzate in prime time: la crisi etiopica, con vari incontri che hanno coinvolto anche i rappresentanti eritrei; quelle del Sahel, coi colpi di stato a ripetizione; quella del Sudan, di cui non si vede ancora la fine. Su quest’ultima la grande preoccupazione riguarda la distruzione dello Stato, un po’ com’era già accaduto per la Somalia. All’Onu i Paesi sono tutti rappresentati in forma ufficiale: ciascuno ha il suo posto, il suo nome, la bandiera. Ma ciò non significa che tutto questo abbia una consistenza reale. Mogadiscio è sempre stata raffigurata, ma tutti sapevano che si è trattato a lungo di pura finzione: lo Stato somalo non esisteva e ancora oggi esiste solo parzialmente.
All’Onu tuttavia emerge un principio fondamentale: uno Stato per esistere ha bisogno di essere accettato e riconosciuto dai suoi pari. Per questo gli altri Stati continuano a “fare finta” che uno Stato esista anche se è a pezzi, in attesa che si ricomponga. Non sono ciechi ma realisti: si tratta di una lezione importante per secessionisti, terroristi o avventurieri vari. Non basta assumere il potere su un territorio (magari con la forza, ma non solo) per essere “certificati” in quanto Stati. Ci deve essere l’accettazione degli altri Stati, che non avviene mai alla leggera. È un tema molto presente alle Nazioni Unite per quanto riguarda l’Africa. Ci fu un tempo in cui specialisti vari esigevano la “decertificazione” degli Stati africani a causa della loro non sostenibilità. Per difendere tale tesi si ricorreva alla storia: dal momento che le frontiere degli Stati africani furono disegnate dai colonizzatori, non devono per forza essere rispettate. Molti Stati – si sosteneva – non sono difendibili, come il Congo-Zaire o la Nigeria, troppo grandi e instabili, oppure come quelli del Sahel, costruzioni troppo fragili.
Tutto ciò sembra avere una logica, ma si scontra con la realtà giuridica della costruzione internazionale: gli Stati sono il building block, il mattone con cui è costruito l’edificio delle relazioni internazionali, e non se ne può prescindere. Non esiste un’istanza superiore che li certifichi se non quella dell’accettazione reciproca tra pari. Per cui non ci può essere improvvisazione nella costituzione di uno Stato. Tale ragionamento torna attuale oggi per quanto riguarda il Sahel, ma si è visto all’opera per le crisi del Medio Oriente, quando per esempio si parlava di Siraq, inseguendo la logica dell’Isis che voleva distruggere quelle frontiere, o di Afpak. Si tratta di giochi geopolitici che non si reggono. Oggi la sfida dell’Africa è contrastare la frammentazione degli Stati ed è proprio all’Assemblea generale che ciò assume tutta la sua pregnanza.
Durante la settimana in cui la presenza dei capi di stato e di governo è più concentrata, si è discusso molto di come arginare i golpe nel Sahel e altrove, considerando anche che lo stesso riconoscimento delle giunte militari non può diventare qualcosa di automatico. Per ora i governi imposti con la forza delle armi e sospesi dalle rispettive regionali o dall’Unione Africana non hanno spazio per parlare in assemblea come gli altri. Ma sono pur sempre presenti con una girandola di incontri. L’Onu resta la piazza del mondo dove tutti hanno un loro spazio, anche i governi dei Paesi piccoli e piccolissimi, anche i governi non democratici e poco o nulla rispettosi dei diritti umani. Può non piacere, ma è l’unico modo per ottenere una convocazione globale, in cui tutti siano presenti e ci sia la possibilità di influire su tutti.
Tuttavia, conditio sine qua non è che esista lo Stato e che non si frammenti. Per ciò che riguarda il Sudan, la situazione attuale non viene accettata da nessuno. La minaccia di costituire nuove entità spezzando l’unità del Paese non viene nemmeno contemplata. Senza Stato non ci sono relazioni internazionali legittime né legali, ma solo contrabbando, movimenti criminali o situazioni de facto. È questa la debolezza intima del Somaliland e delle altre entità somale che vorrebbero farsi Stato senza averne le caratteristiche; è questo il rischio che corre il Sudan se le due parti in lotta non si siedono attorno al tavolo per parlarsi, assieme alle forze della società civile che non hanno voluto ascoltare precedentemente. È questo anche il destino dei Paesi del Sahel, se ai terroristi e miliziani di varia origine viene lasciata la facoltà di distruggere l’unità nazionale. Ma è anche questo il rischio che corrono i golpisti se non accettano che sia ripristinata al più presto la legalità costituzionale dei loro Paesi, dopo una ragionevole transizione.