di Mario Giro
I colpi di stato in Mali, Niger e Burkina Faso sono frutto di una pianificazione strategica e segnano una rottura con i golpe del passato. I nuovi leader militari, sostenuti dalle popolazioni civili, ignorano le pressioni occidentali e rispondono alla crisi con una visione autonoma. Tuttavia, restano sfide aperte come la minaccia jihadista e l’instabilità regionale.
I militari che hanno preso il potere in Mali, Niger e Burkina Faso hanno agito con strategia e pianificazione, evitando qualsiasi improvvisazione. I loro golpe si distinguono dai precedenti della regione, come in Costa d’Avorio o Guinea, e non assomigliano nemmeno a quello più recente in Gabon, in Africa centrale. Non si tratta dei classici ammutinamenti di ufficiali insoddisfatti del salario o delle condizioni di vita nelle caserme. Inizialmente, gli ammutinamenti sono stati una copertura per mascherare l’obiettivo principale: il rovesciamento delle istituzioni. La vera sorpresa è che la nuova élite militare (nella foto, il capitano Ibrahim Traoré, presidente ad interim del Burkina Faso) ha sviluppato una propria visione della crisi che colpisce i rispettivi Paesi, senza allinearsi né con l’opposizione né con i conservatori etnico-religiosi. Per questi ultimi, i golpe sono stati una cocente delusione, poiché i militari si sono rivelati insensibili alle loro richieste, nonostante le aspettative di un’apertura. I russi, divenuti nuovi alleati dei militari africani, non sono estranei a questa svolta.
I colpi di stato sono stati una sorpresa per tutti: la Francia e i suoi alleati europei, inclusa l’Italia, impegnati nella lotta al jihadismo; i terroristi islamici stessi, già indeboliti dopo l’uccisione di un leader importante come Droukdel; i movimenti wahabiti, che cercavano uno spazio politico; le sinistre extraparlamentari, come i sankaristi in Burkina Faso, che tentavano di cavalcare il malcontento giovanile; le opposizioni parlamentari e persino gli Stati Uniti. I vicini della regione sono stati altrettanto destabilizzati, poiché temono che il fenomeno possa estendersi, specialmente dopo la creazione dell’AES (Alleanza degli Stati del Sahel), che si pone come contraltare all’ECOWAS.
I militari hanno scelto attentamente il momento di agire, mantenendo segrete le loro intenzioni e concedendo pochissime interviste. In Mali, la leadership non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica. Hanno adottato una retorica anti-occidentale facilmente comprensibile da una popolazione stanca di paternalismi e predazioni esterne. Gli occidentali si lamentano, accusando gli africani di ingratitudine, dimenticando che, come diceva Robespierre, “nessuno ama i missionari armati”. Dopo le indipendenze, per decenni i militari francesi, britannici, americani e occidentali in generale hanno dominato il continente, sostenendo colpi di stato o regimi autoritari. Oggi, gli africani rispondono inalberando bandiere russe, non tanto per fiducia in Mosca, ma per il piacere di vedere la reazione occidentale.
Tuttavia, i nuovi leader devono rispondere alle esigenze della popolazione in termini di occupazione e servizi pubblici, e non potranno fare affidamento troppo a lungo su vittimismo e complottismo. Mentre acquistano armi dalla Russia, cercano anche sostegno finanziario dalla Cina e dai Paesi del Golfo. Tuttavia, i cinesi sono più cauti nei confronti dell’Africa: nonostante i vertici in pompa magna, Pechino presta meno e si assicura che i suoi investimenti siano redditizi. La guerra in Ucraina ha già distolto molte risorse e attenzioni verso il Sud Globale, lasciando poche risorse per l’Africa. Ci sono comunque opportunità per nuovi attori: la Turchia, con la sua rete aerea Turkish Airlines, la Corea del Sud, che si sta aprendo al continente per la manifattura e i grandi progetti, la Malesia nel settore petrolifero, e l’India, che vanta una discreta diaspora nella parte meridionale. Anche il Brasile ha legami con gli stati lusofoni. Queste sono tutte opportunità per l’Africa, non solo di ottenere nuovi alleati, ma anche di far sentire la propria voce in contesti globali come i BRICS.
Gli stati dell’AES hanno risposto alle critiche dell’ECOWAS prolungando le cosiddette transizioni militari. La protesta dei leader religiosi salafiti e conservatori non ha avuto successo, al punto che in Senegal, alcuni capi delle confraternite stanno riflettendo sul da farsi. Il nuovo presidente senegalese Faye si è offerto come mediatore e, per ora, non è stato respinto, avendo già compiuto diverse visite diplomatiche. Quello che accade nel Sahel potrebbe diventare un modello per altre regioni dell’Africa, pur nascondendo possibili sorprese. Al momento, i capi militari mantengono saldamente il controllo, con il sostegno dell’opinione pubblica e dei nuovi alleati russi. Tuttavia, la situazione è fragile e potrebbe mutare improvvisamente: i jihadisti rimangono una minaccia, i ribelli tuareg non sono scomparsi, e la debolezza di altri Paesi potrebbe accelerare i processi. Il ruolo della Cina potrebbe diventare più politico, mentre la presenza americana potrebbe intensificarsi. Anche le tensioni regionali, come la rivalità tra Algeria e Marocco, l’autoritarismo in Tunisia e la frammentazione della Libia, potrebbero fungere da fattori destabilizzanti. Il rischio che l’area si trasformi in un “Sahelistan” fuori controllo è più che mai reale.