Quando si tratta dell’Africa è prassi liquidare le sue guerre come etniche, tribali e, a causa di queste “radici”, quasi fuori dalla storia e in larga parte incomprensibili. Mario Giro – docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università per Stranieri di Perugia, viceministro degli Esteri dal 2013 al 2018 ed esponente della Comunità di Sant’Egidio – contesta vivamente questa prassi. Nel suo ultimo libro, intitolato Guerre Nere e in libreria da oggi per i tipi di Guerini e Associati, invita il lettore a “cambiare occhiali” e osservare quel che accade nel continente attraverso lenti meglio calibrate sulla contemporaneità globale. «Le guerre africane sono politiche tanto quanto quelle degli altri continenti», afferma Giro nell’introduzione. «L’Africa non è indietro o in ritardo, non è estranea alla storia: paradossalmente è entrata nella globalizzazione prima dell’Europa, cogliendone le opportunità e accettandone le sfide, soprattutto quelle contraddittorie del mercato».
Ma quante sono oggi queste guerre? Il Conflict Barometer (messo a punto dallo Heidelberg Institute for International Conflict Research ) dà conto per il 2019 di 23 crisi non violente, 45 violente, 8 guerre territorialmente “limitate” e 5 di ampia portata. Queste ultime sono: la guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo; quella contro i jihadisti nel Sahel; quella contro Boko Haram in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad; l’annoso conflitto somalo. Se si confrontano questi numeri con quelli degli anni precedenti, una caratteristica emerge con chiarezza: i conflitti africani tendono a cronicizzarsi più che a moltiplicarsi. Sono più o meno sempre quelli, da anni. E difficilmente mettono in discussione i confini tracciati dal colonialismo. «La caratteristica conflittuale africana è intestina, intra-statale e apparentemente etnica», osserva Giro. «Rari sono gli scontri tra Stati e rarissimi i tentativi di strappare pezzi di territorio altrui. Se avvengono interventi di eserciti nazionali sui territori di un altro Stato africano è mediante accordi e comunque non si tratta mai di occupazioni permanenti». Le eccezioni si contano sulle dita di una mano: Eritrea, Sud Sudan e il contenzioso tra Fronte Polisario e Marocco nell’ex Sahara Spagnolo.
Le guerre africane nascono da ragioni identitarie, religiose, ambientali, sociali, economiche, geopolitiche, al pari di quelle in atto nelle altre parti del mondo. Dalla fine della Guerra Fredda, però, i protagonisti dei conflitti hanno lasciato che le ragioni della lotta fossero rappresentate, almeno in Occidente, nei termini di una narrazione etnica. Per quale ragione? Essenzialmente per inerzia, sostiene Giro. Questo taglio ha permesso di dare una spiegazione a questioni legate alla proprietà fondiaria, alla dialettica identitaria e allo sfruttamento delle risorse senza doversi preoccupare di sciogliere le contraddizioni e andare a fondo. Si è preferito, in altre parole, «utilizzare la logica etnica di sangue e razza fissata dal colonizzatore e facilmente decifrabile, piuttosto che quella tradizionale africana, più mobile, legata alle dinamiche dei ceti sociali, porosa e connessa ad ascendenze e lignaggi ma molto difficile da rappresentare». In altre parole, ancora, gli africani lasciano – per mancanza di alternativa e forse un pizzico di opportunismo – che le loro guerre vengano raccontate e spettacolarizzate in Occidente usando categorie familiari al pensiero occidentale.
Tutto questo, per esempio, è evidente nel caso della Costa d’Avorio, nazione a cui viene dedicato un capitolo, e che ancora oggi a dieci anni dalla fine ufficiale della guerra, non ha trovato una via alla pacificazione. Liquidare gli scontri ivoriani, anche quelli che stiamo osservando in questa convulsa fase post elettorale, come etnici produce una semplificazione deformante. L’ivorianità non è infatti una questione etnica o tribale e non può prescindere dalla complessa relazione tra autoctoni (gli abitanti originari), allogeni (gli ultimi arrivati) e alloctoni (non originari ma stanziali da tempo) che rappresentano un terzo della popolazione. Analogamente troviamo rubricate come un tutt’uno jihadista le azioni belliche di Boko Haram, che hanno invece matrici ben più complesse.
Giro in questo libro non passa in rassegna tutte le guerre africane. Si sofferma su alcune, scegliendo in particolare quelle in cui il cambiamento sociale e antropologico dovuto alla globalizzazione risulta più evidente: la citata Costa d’Avorio, ma anche il Rwanda, la regione del Sahel, il Mozambico, la Repubblica Democratica del Congo e la Nigeria. Due aspetti che in questa ricostruzione vengono puntualmente messi in luce sono la privatizzazione delle guerre che, nella maggior parte dei casi, sono combattute non dagli eserciti regolari ma da contractor e milizie private, e il ruolo giocato dai giovani, “cadetti sociali” che, in tempi di crisi e grandi trasformazioni, per emergere in una società che non li considera, troppo spesso prendono le armi o la via delle migrazioni.
(Stefania Ragusa)