L’uomo ha il senso della comunicazione e sa attrarre simpatia. È di non molti giorni fa la fotografia del suo saluto “con il piede”, al posto della stretta di mano, al tempo del coronavirus. E ancora lo ricordiamo con la scopa in mano, nella pubblica via, a pulire i marciapiedi – era stato da poco eletto presidente e il gesto era al contempo un concreto gesto civico di sprone ai cittadini per tener pulita Dar es Salaam e anche simbolico: la lotta alla corruzione era stato un suo cavallo di battaglia in campagna elettorale. Aveva inoltre subito abolito, per risparmiare denaro pubblico, i mega- festeggiamenti per l’anniversario dell’indipendenza nazionale. E, a meno di due anni dall’inizio del suo mandato, aveva cominciato a mettere in riga le compagnie minerarie che si arricchivano con i tesori del sottosuolo tanzaniano. Insomma John Magufuli, salito alla massima carica dello Stato inaugurato da Nyerere grazie a elezioni considerate dagli osservatori «le più aperte nella storia del Paese», ha fatto onore al suo soprannome di Tingatinga, ossia “Bulldozer”.
Ma da bulldozer si è ben presto comportato anche nei confronti della democrazia. E qui il cahier de doléances conta molte pagine oscure, dalla progressiva stretta sulla libertà d’informazione, canzoni comprese, che ha visto intervenire anche Amnesty International, Human Rights Watch e Reporters sans frontières, alle limitazioni di carattere più direttamente politico, come gli arresti di oppositori quali Zitto Kabwe e Freeman Mbowe, e il divieto pratico delle manifestazioni politiche di dissenso.
Alle elezioni amministrative del 2019, il partito (da sempre) di governo, il Chama cha Mapinduzi (Ccm) appunto guidato da Magufuli, rastrellò il 99,9% dei seggi. Si teme essere stata la prova generale per le elezioni presidenziali in calendario per il prossimo ottobre. Ancora al voto? Ma perché?! «È costoso fare delle elezioni e, come tutti sappiamo, nessuno può sconfiggere il presidente Magufuli», ha candidamente dichiarato in Parlamento un deputato del Ccm, Livingstone Lusinde. Che, nel timore di non essere stato capito bene, ha chiarito: «Il Paese dovrebbe lasciare il presidente Magufuli in carica per altri cinque anni». Da parte sua, Tingatinga ha magnanimamente declinato la proposta. Il quindicinale Africa Confidential titola senza giri di parole: “Tanzania, ritorno allo Stato monopartitico”.
Per gli analisti, questo è un caso di studio tra i Paesi africani impegnati a risuscitare l’autoritarismo in Africa. La strada maestra – di certo non l’unica battuta! – è quella delle revisioni costituzionali per estendere il numero dei possibili mandati presidenziali. Fu inaugurata nel 1998 da Sam Nujoma in Namibia, seguito da Gnassigbé Eyadéma (Togo, 2002), Omar Bongo (Gabon, 2003) eccetera, fino – per venire ai giorni nostri – ad Alpha Condé, il quale ha fissato la data del 22 marzo prossimo per farsi fare questo regalo dai guineani, che ha chiamato alle urne per il referendum costituzionale che gli allungherà la vita politica.
Idriss Déby Itno ha già provveduto nel 2018. Alla fine dell’anno festeggerà i 30 anni di presidenza del Ciad, e potrà candidarsi per altri due sessenni. «Il dibattito sull’alternanza è un falso dibattito – ha assicurato nei giorni scorsi a Deutsche Welle il coordinatore della coalizione di maggioranza, già ministro dei Diritti umani, Abderamane Djasnabaye –. Personalmente non condivido il limite dei due mandati. Sta all’opposizione organizzarsi, battersi perché si produca un’alternanza». E, perché non ci siano dubbi sulle interpretazioni, Déby ha nel frattempo provveduto a sopprimere il posto di primo ministro, il Consiglio costituzionale e l’Alta Corte di giustizia.
Premio senza candidature
Non stupisce, a questo punto, che l’ultima edizione dell’annuale, consistente premio della Fondazione Mo Ibrahim – voluto dall’omonimo magnate delle telecomunicazioni britannico-sudanese per incoraggiare la buona governance in Africa – sia andata quest’anno a vuoto, come annunciato nei giorni scorsi dagli uffici dell’Ibrahim Prize for Achievement in African Leadership. Il primo vincitore fu, nel 2007, Joaquim Chissano, ex capo dello Stato mozambicano (il riconoscimento è destinato a leader che abbiano già regolarmente completato il loro mandato). La motivazione dell’ultima mancata assegnazione è la seguente: «Il Premio Ibrahim riconosce leadership davvero eccezionali in Africa, celebrando modelli di riferimento per il continente. Viene assegnato a individui che, attraverso l’eccezionale governance del loro Paese, abbiano portato pace, stabilità e prosperità al loro popolo. Sulla base di tali criteri rigorosi, il Comitato del Premio non ha potuto assegnare il premio nel 2019».
Il guaio è che già in altre sette annate l’Ibrahim Prize non ha trovato un degno destinatario. Per non concludere sulle negative, citiamo gli altri capi di Stato che invece hanno ricevuto questo prestigioso diploma di buona condotta e di dedizione al loro Paese: nel 2008, Festus Mogae, già presidente del Botswana e attuale presidente del Comitato del Premio; 2011: Pedro Pires, di Capo Verde; 2014: Hifikipunye Pohamba, Namibia; 2017: Ellen Sirleaf Johnson, Liberia. E, naturalmente, “fuori concorso”, nel 2007, Nelson Mandela.
(Pier Maria Mazzola)
[Il collage ha il solo scopo illustrativo]