di Rocco Forcellino
L’annuncio dell’australiana Woodside Energy del primo barile estratto nell’impianto a largo di Dakar ufficializza l’entrata del Senegal nei paesi produttori di petrolio, ma la notizia ha un sapore agrodolce. Il nuovo governo non fa segreto della sua volontà di rinegoziare i contratti di sfruttamento firmati dal suo predecessore. In ascolto, la Cina offre un’alternativa.
Il petrolio, si sa, è un’arma a doppio taglio. Tra il suo possesso e l’effettivo godimento dei suoi benefici si interpongono numerose variabili. Tra tutte, il rapporto tra lo Stato e le compagnie che operano nel settore. Nel caso senegalese, ad esempio, vi è un’inesauribile tensione fra il sacro rispetto degli accordi, indispensabile per mantenere una credibilità internazionale, e l’interesse supremo dello Stato, i cui governanti di ieri, a detta di quelli di oggi, hanno concluso accordi iniqui e sproporzionati da una posizione di soggezione a potenze predatorie. In queste condizioni, il primo barile di petrolio estratto dal Senegal, piuttosto che un punto d’arrivo, segna l’inizio di una delicata sfida di diplomazia commerciale.
Ciò detto, per il momento il clima nell’opinione pubblica senegalese è festivo: “una nuova era” è cominciata secondo Thierno Ly, direttore generale di Petrosen, braccio Statale che partecipa per il 18% (il restante 82% all’australiana Woodside) alla joint venture RSSD che gestisce lo sfruttamento del blocco SANGOMAR, area a largo di Dakar i cui fondali ospitano, secondo l’ITIE, 630 milioni di barili. I giacimenti, scoperti nel 2014, ammontano a tre miliardi di barili in tutto il paese.
Sono numeri non irrilevanti che se letti insieme ai 450 miliardi di metri cubi di gas (terzo paese in Africa per giacimenti) scoperti nel 2016, pongono il Senegal in un inedito ruolo di potenza energetica, come conferma la sua partecipazione in qualità di osservatore al Gas Exporting Countries Forum (l’equivalente dell’Opec per il gas) e il rialzo delle sue stime di crescita da parte del Fondo Monetario Internazionale (7,1%).
Dietro l’euforia delle prime pagine, tuttavia, l’annuncio di questo storico momento non ha mancato di suscitare questioni all’interno dell’opinione pubblica, da mesi in ascolto di una schietta e convinta retorica della nuova governance circa la volontà di mettere mano agli accordi siglati da Macky Sall.
Il “ripristino” della sovranità nazionale sulle industrie sensibili è stato un punto fermo della campagna elettorale ed è stato ribadito a più riprese, sia nell’immediato post-elezioni dal Ministro dell’Energia, sia nell’incontro del 17 maggio tra Jean Luc Melenchon e il primo ministro Ousmane Sonko. Quest’ultimo, conscio della visibilità che quell’incontro gli avrebbe garantito sulla stampa occidentale, ha colto l’occasione per ammonire quei partner che a suo dire approfittarono dell’eccessiva deferenza di Sall e li ha invitati a “incoraggiare il riequilibrio dei guadagni”.
La risposta della compagnia Australiana (il cui azionista maggioritario è lo Statunitense Vanguard group) è arrivata proprio in concomitanza con l’inizio dell’attività estrattiva: la responsabile delle operazioni internazionali Shiva Macmahom ha riferito di aver avuto un dialogo con il Ministro dell’Energia Birame Souleye Diop in cui ha sostanzialmente allontanato ogni ipotesi di rinegoziazione sostenendo che “ i Paesi che ottengono più successo sono quelli che onorano il carattere sacro del contratto e creano un ambiente di investimento stabile”.
In questa tensione sembrano volersi inserire competitors delle compagnie occidentali, prima su tutte la Cina. Con sospetto tempismo, a colloquio Martedì con l’Agence Nationale chargée de la Promotion de l’Investissements et des Grands Travaux(APIX), il Presidente della Camera di Commercio Cina-Africa Zhu Shun ha manifestato l’intenzione del settore privato cinese di investire in campo energetico e ottenere così la sua parte nel nuovo mercato del petrolio.
La Cina ha ormai spodestato la Francia come primo fornitore del Paese e ha nel mirino molte delle partecipazioni di compagnie occidentali che, specialmente nel vicino Sahel, sembrano sempre più disposte a ritirarsi visti gli alti costi di sicurezza e la generale ostilità dei governi locali.
L’interesse del dragone verso il neonato mercato d’idrocarburi senegalese potrebbe incoraggiare le istanze di rinegoziazione delle autorità senegalesi, più disposte a correre il rischio di rottura se in possesso di un’alternativa credibile da esporre in sede negoziale.