Ricorre oggi l’anniversario della morte del giornalista e scrittore Raffaele Masto, colonna della Rivista Africa e voce di Radio Popolare – una vita dedicata a raccontare il continente africano – scomparso all’età di 66 anni il 28 marzo 2020. Lo vogliamo ricordare pubblicando uno stralcio di uno dei suoi formidabili reportage, pieni di umanità e di riflessioni illuminanti.
testo e foto di Raffaele Masto
In quei giorni [del 2009] ero a Nairobi in attesa di avere il via libera per andare nelle regioni keniane al confine con la Somalia, dove si erano formati diversi campi di profughi fuggiti dalla guerra, tra i quali il più grande accampamento per rifugiati, quello di Dadaab. Su di loro pesava anche una grave carestia determinata dalla siccità che colpisce, ormai periodicamente, quei territori.
Come se non bastasse, a rendere tutto più difficile c’era il fatto che i prezzi del riso, del miglio e del mais, per effetto della crisi economica, erano praticamente raddoppiati: denutrizione e fame avevano già cominciato a mietere le loro vittime e tutto lasciava presagire che la situazione sarebbe andata peggiorando. La conferma che i prezzi dei prodotti di prima necessità erano saliti a livelli irraggiungibili mi arrivò anche da Patrick, un cameriere del bar dello Stanley Hotel con il quale, nelle mie giornate di attesa, avevo fatto amicizia.
Patrick aveva due figli e abitava a Mathare, la più grande delle baraccopoli di Nairobi. Per dimostrarmi che con il suo stipendio non riusciva più a sbarcare il lunario si fece i conti in tasca: mantenere due bambini alla scuola – che è privata, quindi a pagamento –, abiti per quattro persone, spese varie, carbonella per cucinare, un pollo una volta alla settimana, un sacco di riso da cinque chili per sette giorni, della verdura come contorno… e poi, quando i soldi al quinto giorno della settimana finiscono, tutta la famiglia deve dare fondo agli ultimi chicchi di riso e all’«erba-tira-settimana»: una verdura dal valore nutritivo nullo, chiamata così perché cresce abbondante e libera nei campi intorno agli slum, tra le baracche e lungo le strade, e quando non è rimasto nient’altro ci si accontenta..
Anche Patrick aveva la sua visione del mondo: «Se in Europa ci fosse davvero la crisi, qui noi staremmo un po’ meglio», sentenziò un giorno. Compresi che per lui il sistema globale dell’economia era semplicemente una bilancia: se da una parte c’è un sovrappiù di beni e di ricchezza è perché da qualche altra parte c’è una mancanza. Cercai di convincerlo che la congiuntura economica che colpiva l’Europa era la stessa che si ripercuoteva sui prezzi dei beni necessari per lui e la sua famiglia.
Se ne andò perplesso e – dopo aver servito un gruppo di somali a un tavolo vicino – tornò da me, evidentemente arricchito di un’ulteriore riflessione: «La crisi che colpisce l’Europa, forse, è un atto di giustizia», dichiarò quasi ispirato mentre ritirava la mia tazza di caffè lungo alla kenyana. «Forse il buon Dio ha guardato bene, ha fatto i conti e ha capito che il vostro turno è finito: ora tocca a noi avere un po’ di ricchezza e di benessere».
In realtà, negli anni successivi, si comprese che il turno degli africani non era affatto arrivato. Le impennate del Pil esibite da diversi paesi rispecchiavano semplicemente il grande afflusso di denaro determinato dagli investimenti cinesi e asiatici in genere o arabi, che però si sono concentrati sulle concessioni minerarie e agricole, oppure sulla costruzione di infrastrutture e strade destinate soprattutto a trasportare materie prime in porti o aeroporti internazionali per l’esportazione.
In sostanza, si è trattato di passaggi di denaro che hanno arricchito le onnivore e inamovibili classi politiche al potere senza riuscire a distribuire la ricchezza, a creare una classe di consumatori in grado di esprimere una vera domanda interna di beni e servizi.
Le formidabili crescite economiche di molti Paesi africani sono però anche il segno che l’Africa e le sue materie prime sono ambite e contese: si trovano infatti nel mirino delle vecchie potenze occidentali, che devono competere innanzi tutto con le agguerrite economie emergenti asiatiche e con la superpotenza Cina, ma anche con le monarchie del Golfo, giganti finanziari che cercano sbocchi nel continente a loro più vicino (dove gran parte della popolazione è musulmana), e con alcuni dei cosiddetti Brics, cioè il Brasile, il Sudafrica, oltre alle imprese e alle multinazionali di paesi come l’Australia, l’India, il Canada.
Se nel XVIII o nel XIX secolo avessimo guardato all’Africa e alle nazioni che già allora, con lo schiavismo prima e il colonialismo poi, saccheggiavano il continente, avremmo potuto «leggervi» il futuro assetto geopolitico del pianeta: avremmo cioè capito quali sarebbero state le grandi potenze dei secoli a venire. Così anche oggi, osservando l’Africa, scorgiamo quelle che saranno, presumibilmente, le grandi potenze del futuro e ci possiamo fare un’idea di quale potrebbe essere l’equilibrio geostrategico del pianeta nel terzo millennio.
Per chi ha amato Raffaele Masto, e chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo, suggeriamo l’acquisto del libro postumo “L’Africa riscoperta” (2021 – 440 pp.), autoprodotto da Fondazione Amani e Amici di Raffa. È un’ampia raccolta di reportage di Raffaele Masto, tratti da alcuni dei suoi libri di maggior successo, in gran parte ormai difficili da trovare. Trent’anni di viaggi. L’eredità ritrovata di un grande giornalista e narratore. In vendita su Amazon.