testo e foto di Marco Trovato e Irene Fornasiero
Visita a una sperduta isola del Lago Malawi ricca di storia e di fascino. Si trova nelle acque territoriali del Mozambico, ma fa parte del Malawi. Vanta una delle più antiche e maestose chiese d’Africa, costruita dove un tempo si bruciavano le donne accusate di stregoneria. L’isola di Likoma è un mondo a parte. E i suoi spiriti parlano attraverso un sacerdote tradizionale
Sembrano uno sciame di stelle cadute in acqua, ma quelle che brillano all’orizzonte sono le lampare appese alla poppa delle barche per la pesca notturna. Un tempo erano lampade a petrolio, oggi sono faretti led di produzione cinese. I loro fasci di luce attirano nelle reti milioni di minuscole sardine. Le chiamano usipa. Sono una benedizione del cielo. La vita qui dipende da questi pesciolini lucenti e gustosi. Si trovano dappertutto nei villaggi. Di giorno vengono stesi a essiccare sulla spiaggia, per poi essere venduti al mercato. All’ora di pranzo finiscono nel piatto con la polenta di mais e i fagioli bolliti. Il loro odore acre permea l’aria dell’isola.
Si racconta che anticamente i marinai seguissero questo inconfondibile olezzo per raggiungere Likoma. Su questo lembo di terra che affiora dal Lago Malawi sono approdati pirati, fuggiaschi, avventurieri, missionari, gente in cerca di pace.
Le tracce di Livingstone
L’isola di Likoma è un mondo a parte. I suoi abitanti, poche migliaia di persone, vivono di pesca e piccoli traffici, seguendo ritmi dettati dalla natura. Le attività dipendono dai venti, dalle maree, dalla luna. Le giornate scorrono lente e indolenti. Allergica alla frenesia, la gente di Likoma sembra andare al rallentatore. Del resto, perché correre? I collegamenti con il resto del mondo dipendono da un battello, l’Ilala (vedi il servizio su Africa 2/2022), che approda due volte a settimana quando va bene. In caso di forte maltempo o di guasto al traghetto, Likoma resta isolata. E non accade di rado.
La costa montagnosa del Mozambico è vicina, a dire il vero, a pochi chilometri, e quando soffia la brezza giusta le vele delle piroghe permettono di raggiungerla in un’ora di navigazione. Ma l’isola non fa parte del Mozambico, benché si trovi nelle sue acque territoriali. Likoma è una zolla di Malawi finita nelle acque dell’omonimo lago (un tempo chiamato Niassa): un imponente mare interno, il terzo, per dimensioni, dell’Africa, esteso quasi 30.000 chilometri quadrati e profondo fino a 700 metri. Qui fu creata nel 1880 la sede principale della University Mission of Central Africa, fondata dall’esploratore e missionario David Livingstone (l’europeo che scoprì il lago, nel 1859). Fu la presenza di questa istituzione anglicana a far ricadere Likoma nel Malawi (il Mozambico era “cattolico”) quando, nel 1954, inglesi e portoghesi stabilirono i confini tra le rispettive colonie.
Maestosa cattedrale
I segni dell’antica presenza cristiana sono tuttora evidenti. Il centro abitato più importante dell’isola, Chipyela (“il posto dei roghi”), è dominato dalla St Peter Cathedral, imponente edificio con facciata e due torri campanarie che ricordano l’Abbazia di Westminster. La chiesa fu fatta costruire all’inizio del secolo scorso da due missionari scozzesi sulle orme di Livingstone: il vescovo Chauncy Maples e il reverendo William Percival Johnson. Il primo annegò durante un naufragio nel lago, l’altro fu colpito da cecità e passò l’intera vita a predicare il Vangelo in questa sperduta regione dell’Africa.
La cattedrale sorge nel punto in cui un tempo venivano bruciate le donne accusate di stregoneria. I due missionari, sconvolti dai terrificanti roghi, cercarono di soffocare le fiamme della superstizione innalzando un tempio maestoso, che oggi appare sovradimensionato, quasi fuori posto nel contesto in cui è collocato. Tuttavia ogni domenica la chiesa è gremita di fedeli giunti da ogni angolo dell’isola. Si assiepano sulle panche di legno, ostentando i migliori abiti e le capigliature più raffinate, e intonano suggestivi corali che fanno vibrare la lunga navata centrale.
In giro per l’isola
«Ci troviamo isolati in mezzo a un grande lago, dobbiamo pur farci sentire per attirare le attenzioni del cielo», scherzano in sacrestia, alla fine della messa, tre chierichetti: Blessing (Benedetto), Halleluja e Christmas (Natale). Con quei nomi hanno il destino segnato. «Vogliamo diventare sacerdoti», ci confermano. Per studiare teologia dovranno lasciare l’isola. «Non ci siamo mai allontanati da qui, non sappiamo davvero cosa aspettarci. Il mondo lo vediamo solo in tivù e con il cellulare».
Fino a pochi anni fa non c’era nemmeno quello: l’elettricità è arrivata dopo le ultime elezioni, assieme ai ripetitori telefonici. «Un ringraziamento del presidente per l’appoggio ricevuto dalla popolazione», mi hanno spiegato. L’asfalto delle strade arriverà forse alla prossima tornata elettorale. Per il momento ci si sposta su piste sterrate che paiono montagne russe. I ragazzi si guadagnano la giornata con i loro mototaxi. Sfrecciano come piloti spericolati, fanno lo slalom tra massi appuntiti e buche paurose, in mezz’ora vanno da un capo all’altro dell’isola (lunga 6 chilometri, è larga 3).
Il regno dei baobab
«Reggetevi forte», ci urla Pablo, venticinque anni, mentre sobbalziamo sulla sua motocicletta rischiando ripetutamente di cadere. Sfioriamo acacie spinose, jacarande fiorite e alberi di mango dalle fronde rigogliose cariche di frutti. Ma a troneggiare sul paesaggio sono decine di possenti baobab. Hanno l’aspetto avvizzito, la corteccia grinzosa come il volto dei vecchi, i rami contorti che sembrano implorare l’acqua al cielo. Sembrano giganti piegati dall’età.
Ai piedi dei colossali fusti si tengono i mercati, le riunioni degli anziani, le udienze dei giudici tradizionali, le danze rituali. «I baobab sono il centro gravitazionale della vita sociale dei villaggi», confida Pablo. «La gente li rispetta perché si trovano sull’isola da prima dell’uomo e per la loro straordinaria capacità di sopravvivere a lunghi periodi di siccità. Si dice che possiedano poteri magici e offrano riparo agli spiriti degli antenati».
C’era una volta, recita una leggenda locale, un gruppo di gnomi scontrosi che decise di vendicarsi degli uomini, colpevoli di disturbare la loro quiete con musiche e litigi assordanti. Escogitarono un dispetto molto particolare: approfittando del buio della notte, s’intrufolarono nei villaggi e sradicarono tutte le piante che trovarono. Non le gettarono nel lago, ma le capovolsero. Dando così vita ai baobab, che in effetti sembrano piantati al contrario, con le radici al cielo.
Aspettando le piogge
Lungo la costa si alternano baie turchesi, rocce bianche, foreste di mangrovie, strisce di finissima sabbia color nocciola. In quel caleidoscopio di colori occhieggiano i villaggi dei pescatori, manciate di casette di legno e capanne di terra battuta coi tetti in paglia.
Sulla spiaggia stanno scaricando il pesce dalle piroghe. Le donne fanno la spola coi catini colorati in testa. I bambini si tuffano in cerca di refrigerio. Il sole picchia implacabile. Morbide nuvole, simili a batuffoli di bambagia, ondeggiano nel cielo terso. La stagione delle piogge tarda ad arrivare, sul Malawi aleggia lo spettro dell’ennesima siccità. «Gli abitanti di Likoma hanno acqua e pesce in abbondanza, ma i beni alimentari che arrivano da fuori, dalla verdura alla farina, hanno cominciato a scarseggiare e i prezzi stanno balzando alle stelle», dice Pablo. Da settimane gli isolani si radunano in chiese e moschee per invocare la pioggia. «Al termine delle preghiere, però, a prescindere dalla religione, i fedeli si ritrovano tutti dal venerabile Chakufua Mzimu, la massima autorità di Likoma». È il sacerdote tradizionale. E indovino, guaritore, guida spirituale. Dicono che sia dotato di poteri sovrannaturali, che custodisca segreti millenari tramandati di padre in figlio, e che possa risolvere ogni problema, dalle questioni di salute alle pene d’amore.
In udienza dall’indovino
La fama del witch doctor di Likoma ha raggiunto i più sperduti villaggi di tutta la regione. I suoi pazienti arrivano da Malawi, Mozambico, Tanzania. Vengono per guarire dalle malattie, per conoscere il proprio destino, per riuscire ad avere figli, per ritrovare la pace con sé e con gli altri. «Ogni volta che l’ho consultato ho ricevuto risposte illuminanti e ho risolto i miei problemi», confida Pablo, che pure si proclama «un fedele cristiano, devoto, rigoroso e obbediente».
Chiediamo anche noi udienza allo stregone di Likoma. Veniamo ricevuti in una sorta di chiesa col pavimento in sabbia. Le pareti sono tappezzate di lenzuola bianche e azzurre con al centro croci disegnate col nastro adesivo. Sull’altare, al posto di statue e icone religiose c’è una sfilza di barattoli di radici, foglie, semi, cortecce sminuzzate, polveri. Un catino di plastica, un mortaio di legno, due corna di antilope. E il sacerdote seduto su uno sgabello. Indossa una lunga tunica fatta con la stessa stoffa delle lenzuola appese ai muri. In testa ha un groviglio di capelli rasta aggomitolati in un turbante. In una mano impugna un libro con la copertina di pelle nera, nell’altra stringe uno scacciamosche di crine di cavallo.
Accovacciate ai suoi piedi, una decina di donne in ginocchio iniziano a salmodiare. I canti paiono invocazioni e sono scanditi dal battito delle mani e da percussioni. Gli occhi di Chakufua Mzimu si chiudono in contemplazione. D’un tratto il volto si contorce in una smorfia. La testa comincia a oscillare sempre più veloce, come in uno stato di trance. La bocca bofonchia cose incomprensibili. Il ritmo si fa frenetico. L’uomo sembra in balia di una forza invisibile che lo schiaffeggia ripetutamente. Le percosse s’interrompono non appena torna il silenzio. A quel punto il sacerdote riapre gli occhi e si scioglie in un sorriso. Lo interpelliamo sul futuro. Ascoltiamo ogni suo sussurro. Vorremmo fermarci più a lungo. Ma la sirena dell’Ilala ci avverte che è giunto il momento di lasciare Likoma.
Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o visita l’e-shop.