Un milione e mezzo di civili sono stati costretti a lasciare i propri villaggi nel nord del Burkina Faso, al confine con Mali e Niger, per sfuggire alle violenze jihadiste. Gli sfollati interni sono una bomba a orologeria, vera emergenza sanitaria, in una regione minata da instabilità e insicurezza. In loro soccorso si è attivata una ong italiana…
Michel ci aspetta alla stazione di servizio, appena dopo il mercato degli animali di Tampouy. Siamo nel Distretto n.8 di Ouagadougou. Ci inoltriamo nel quartiere di Bissighin lungo la strada sterrata che lambisce le case costruite in ordine sparso, senza un piano regolatore. Privo di servizi essenziali e fortemente colpito da una stagione delle piogge più lunga del solito, il quartiere ha visto crollare molte case: la maggior parte costruite in bancò, mattoni di paglia ed argilla, ed intonacate in modo approssimativo.
Accompagno Denisa, la responsabile della ong Tamat in Burkina Faso, nella distribuzione di aiuti alimentari e kit di prodotti anti-covid19 ad un gruppo di sfollati che risiedono nel quartiere da qualche mese. Arriviamo nello spazio concordato vicino al campo di calcio del quartiere, riconoscibile come tale solamente perché ci sono le due porte alle estremità di un terreno che potrebbe anche essere un campo agricolo a riposo. Una moltitudine di uomini e donne con molti bambini ci aspetta seduta all’ombra di un grande neem. Michel prende la parola in moré, la lingua dei Mossi, la popolazione locale maggioritaria.
Ha appena cominciato i saluti e le presentazioni quando il camion con riso, fagioli, ortaggi freschi, sapone, varechina e bacinelle fa l’ingresso nello spazio in cui ci troviamo. Parcheggia proprio accanto al neem, dietro al gruppo di sfollati provenienti dal nord del Burkina Faso, specificatamente dalla Regione di Kaya. Sono 31 nuclei familiari per un totale di più di 600 persone, di cui 355 bambini. Non vivono insieme. Non sono in un campo profughi. Sono stati accolti nelle piccole case di parenti che vivono a Bissighin. In stanze di tre metri per tre dormono anche più di dieci persone; altri addirittura all’aperto, nei ridotti spazi di pertinenza delle abitazioni. Sono tutti, però, parte integrante di quel milione e mezzo di persone censite ufficialmente come sfollati interni del Burkina Faso, fuggiti dalle tre regioni del Nord al confine con il Mali ed il Niger, le più colpite dal fenomeno del terrorismo jihadista.
Chi lotta e chi fugge
I conflitti a fuoco con relativi morti, feriti e distruzioni si susseguono incessantemente quasi tutti i giorni, ormai da mesi. L’esercito burkinabé riesce a garantire il transito nelle arterie principali di comunicazioni con il nord del Paese, lungo il quadrilatero tra Kaya, Dori, Djibo e Ouahigouya. I villaggi e le campagne, però, nonostante gli sforzi, sono fuori controllo. Gli abitanti del nord, da una parte, si stanno organizzando.
I Koglweogo, gruppi di villaggio tradizionalmente destinati al controllo del territorio – in particolare alla lotta contro gli incendi della savana appiccati dai bracconieri e dagli allevatori per rigenerare i pascoli – stanno riconvertendo la loro attività principale. Sono armati e decisi a fronteggiare il pericolo terrorista, più o meno tollerati dalle autorità locali. A volte, però, eccedono e sono già stati denunciati episodi di violenza nei confronti di contadini innocui. Altri abitanti del nord, invece, fuggono verso il sud. Sono prevalentemente coltivatori Mossi.
Quando arrivano, raccontano le loro storie ed accusano esplicitamente la popolazione Peul, allevatori e musulmani, di connivenza con i jihadisti. Si rinfocola così l’atavica diffidenza tra coltivatori e allevatori, tra stanziali e nomadi. Ancora paglia secca su un fuoco già acceso e che brucia senza soste! In ogni modo, i 600 di Bissighin sono arrivati a scaglioni. Qualche nucleo familiare da quasi un anno. Ora sono qui, all’ombra del neem. I più anziani seduti in prima fila, su stuoie intrecciate, con l’inevitabile cellulare che ogni tanto trilla; le donne in seconda fila, i bambini dappertutto.
Testimoni del disastro
Michel, professore di scuola media che coordina la distribuzione in veste di Presidente dell’Associazione dei Giovani per la Sinergia e lo Sviluppo di Bissighin, chiede agli anziani del gruppo di presentarsi e raccontare la propria storia. «Mi chiamo Ahmadou Sawadogo e vengo da Bouroum, dipartimento della regione di Kaya» inizia il primo con una lunga tunica bianca ed un piccolo copricapo tradizionale di cotone, «sono qui da otto mesi. Sono arrivato con le donne e i bambini della mia famiglia, 34 persone. Non ho avuto il tempo di prendere nulla, mi hanno praticamente cacciato dalla mia casa. Volevo portare con me anche mio figlio di 21 anni. Non ce l’ha fatta. Gli hanno sparato i terroristi. Nonostante tre pallottole, però, non è morto subito. L’ho dovuto lasciare. Era pericoloso restare per tutti noi e quindi siamo venuti qui dai parenti che stavano a Ouagadougou…». Come la maggior parte degli sfollati, Sawadogo è Mossi ed è musulmano. Ahmadou Diko, invece, è un Peul, di un villaggio delle campagne di Djibo, regione del Sahel, l’estremo nord del Burkina Faso. Anche lui è fuggito. «Non si poteva più vivere nel villaggio. Ho visto persone uccise, animali trafugati e massacrati. Ci siamo rivolti alle autorità ma ci hanno detto che non potevano garantire più la nostra incolumità. Siamo stati obbligati a partire. Sono venuto con le nove persone della mia famiglia».
Corsa all’oro
Il terrorismo jihadista non distingue le popolazioni per etnie e appartenenze religiose. I fedeli musulmani spesso sono perseguitati come i cristiani, in alcune situazioni anche in modo più violento se non si assoggettano ai diktat e non collaborano al raggiungimento degli obiettivi delle differenti bande jihadiste che operano in queste aree. L’obiettivo è la conquista e l’occupazione di territori, come già successo ampiamente in Mali e come stanno provando a fare anche in Niger. Mentre gli anziani continuano la loro presentazione una donna con quattro figli piccoli si avvicina a Michel e gli dice che non è nella lista dei beneficiari perché è arrivata nel quartiere solamente ieri sera. Ha bisogno d’aiuto, soprattutto di cibo. A Bissighin gli arrivi non si fermano. Michel mi fa notare che le donne che arrivano, anche le più giovani e con figli piccolissimi, restano spesso sole molto presto. I mariti dopo qualche giorno ripartono in cerca di fortuna. Disperati, lontano dalla loro zona d’origine e da Ouagadougou, vanno infatti a fare i cercatori d’oro nelle zone rurali di Koudougou. Con dubbia possibilità di successo, comunque ci provano. La maggior parte non è tornata nemmeno una volta. Queste giovani donne “ridiventano” quindi ragazze, ragazze-madri. È pressoché impossibile che possano trovare lavoro. Si adattano a fare ogni cosa pur di sfamare la prole. “…problemi che si aggiungono a problemi. E poi le famiglie che le hanno ospitate, dopo qualche mese, cominciano a dare segni d’insofferenza. Sono anche loro famiglie bisognose e questi aiuti per i quali non finiremo mai di ringraziare Tamat stanno creando disparità proprio tra gli sfollati e chi li ha accolti. Dovremo pensare anche a quest’ultimi».
Una bomba da disinnescare
Michel ha ragione. Non solo in Burkina Faso ma anche in Mali ed altri Paesi dell’Africa occidentale il problema degli sfollati interni, con tutte le specifiche criticità, sembra essere un problema secondario rispetto ai rifugiati che rientrano dalla Libia o che si spostano verso la Costa d’Avorio, la Nigeria ed il Ghana. Non è così. I numeri ce lo confermano e le implicazioni di natura sociale rischiano d’innestare una bomba ad orologeria che ha già cominciato il suo conto alla rovescia. E non solo in Burkina Faso. La sicurezza territoriale e sociale basata unicamente sulle armi non sta garantendo l’incolumità delle popolazioni saheliane. Alle missioni militari la comunità internazionale deve aggiungere un piano d’intervento immediato che preveda innanzitutto un massiccio aiuto umanitario. Servirà poi programmare una seconda fase d’interventi di sviluppo di durata almeno decennale.
(Piero Sunzini)