Occhi curiosi e gambe infaticabili: il ricordo del celebre scrittore e reporter polacco di Ryszard Kapuściński, scomparso quattordici anni fa. Un giornalista capace di raccontare come nessun altro la bellezza e il dolore dell’Africa. I suoi libri e i suoi reportage sono celebri. Meno conosciuto il suo modo di essere…
di Andrea Semplici
Il biglietto da visita di Ryszard Kapuścińskiè ancora appeso dietro la mia scrivania. Come se fosse un numero urgente. Un numero telefonico da chiamare abitualmente. Come se ogni giorno avessi avuto bisogno di essere rassicurato. Era come dirmi: solo fino a quando Kapu, così lo chiamavamo con amici comuni, ci racconterà il mondo, potrò leggere storie belle e vere. Non staccherò quel biglietto. Anche se sono passati dodici anni da quando se ne è andato. Ancor oggi ne avverto l’assenza.
I piedi
Già, l’assenza di Kapu. Chi avrà ancora occhi, cuore, testa, gambe, scarpe, taccuini per raccontare la bellezza e il dolore dell’Africa? Pensavo: quanti articoli ho scritto anch’io solo spulciando internet? E ora, all’improvviso, ricordo le parole che lui ha sempre ripetuto, instancabile, ai ragazzi che accorrevano ad ascoltarlo: «Erodoto camminò per seimila chilometri pur di vedere con i suoi occhi quanto voleva raccontare. Sono occhi e piedi gli strumenti del nostro mestiere. I computer rendono più facile il nostro lavoro, ma sono solo mezzi. Non possono sostituire gli incontri con gli uomini e le donne che vivono su questa Terra. Né possono far venir meno la voglia di essere in un luogo perché lì, davvero, vuoi essere».
Ryszard sorrideva con gentile malinconia: «Oggi, nel mondo del giornalismo non conta più la ricerca della verità, ma solo la capacità di attrarre pubblico. Un tempo io incontravo i miei direttori e chiedevo di poter partire per il Congo. Avevo di fronte a me un giornalista che mi capiva, poteva dissentire, ma mi capiva. Comprendeva la mia curiosità, a volte mi invidiava, parlavamo un linguaggio comune. Oggi temo che si voglia ridurre il giornalismo a business e i direttori a manager. Se così fosse, il nostro è un mestiere condannato: niente può sostituire la curiosità di andare a vedere cosa sta accadendo nel mondo. Con i propri occhi».
Il telefono
Kapuscinski sorprendeva. Per trent’anni ha vagato per l’Africa come uno sconosciuto giornalista polacco. Viaggiava senza soldi, alla perenne ricerca di un telefono che funzionasse per dettare i suoi pezzi, scantonava (anche se ha incontrato i grandi leader dell’Africa delle indipendenze, come Nasser e Nkrumah) i palazzi del potere e le conferenze stampa ufficiali: preferiva vivere nei quartieri slabbrati di Lagos piuttosto che rinchiudersi nei ghetti per bianchi delle città africane. «Come altro avrei potuto conoscere l’Africa?», replica, con disarmante candore, a chi gli domanda la ragione del perché avesse scelto di vivere in quel «very bad place». Ecco, mi scopro a parlare di Rysazard al presente.
L’istinto
Doveva essere testardo, Ryszard (ecco: contiamo le doti necessarie a un viaggiatore: il rispetto, la curiosità, la pazienza, una sensibilità particolare per capire che direzione prendere e quando fermarsi. Adesso la determinazione…). Venne assunto dall’agenzia di stampa nazionale polacca. La Pap. E gli venne affidato il compito immane di “coprire” l’Africa. Tutte le Afriche. Vi sarebbe rimasto, cambiando più volte Paese e con intermittenze, più dieci anni. Corrispondente di un’agenzia squattrinata. Anni senza computer, senza internet, senza cellulari. Con i telefoni che non funzionavano. Alla perenne ricerca di un telex dal quale poter inviare il proprio pezzo. Capire dove fosse un telex era il rebus da risolvere ogni volta che arrivava in un Paese.
Kapu aveva un istinto: sapeva, meglio di colleghi al sicuro in una redazione in Europa, che avevano più informazioni di lui, dove sarebbe accaduto qualcosa. Dove bisognava andare. Al punto che gli altri corrispondenti impararono in fretta che ogni volta che questo sconosciuto giornalista polacco prenotava un biglietto aereo era bene che anche loro si mettessero in movimento.
La curiosità
Tutti coloro che hanno incontrato questo scrittore-reporter ne sono rimasti disorientati. Era un uomo timido, curioso, fragile, gentile, sereno. Io ebbi da lui un grande dono: alcuni anni fa passammo assieme tre giorni su una spiaggia dell’Adriatico. Era inverno. Andammo a camminare lungo il bagnasciuga: le ore volarono a raccogliere conchiglie e sassi levigati dalle onde del mare. Ryszard, il grande inviato, il giornalista che aveva raccontato ventisette rivoluzioni, era felice come un bambino sulla spiaggia di Porto San Giorgio. Ammirava con stupore le forme di un pezzo di legno, lanciava sassi con occhi ridenti.
Avevo davvero davanti a me il cronista che era in Congo quando fu ucciso Lumumba? Che era a Lagos durante la guerra civile? Che, come nessun altro, ha saputo raccontare il crollo della corte imperiale di Haile Selassie e la cacciata dello Scià di Persia? Questo signore, ricco della gentilezza di altri tempi, un profugo da una terra polacca che sarebbe stata divorata dal vicino sovietico, era davvero la stessa persona che aveva percorso quarantamila chilometri per raccontarci la scomparsa dell’Impero Russo?
L’umanità
Dubbio ingeneroso. Proprio perché Kapu appariva così smarrito e innocente, è stato capace di scrivere la realtà del mondo. Era come se il mondo lo volesse compensare per la sua gentilezza, per il suo cammino lieve su questa Terra. Una volta ho viaggiato, in taxi-brousse, in Mali, con in mano il suo libro africano più bello, Ebano, e quel che vedevo dal finestrino era quanto davvero scorreva fra le pagine che stavo leggendo. Nessun altro è stato capace di raccontare a questa maniera le Afriche. Kapu emoziona perché, come ha sempre ripetuto con forza, un giornalista «non può essere un cinico, non può dimenticare la sua umanità e quella delle persone che incontra». A Erevan, in Armenia, Ryszard assiste, assieme alla gente, alla distruzione del vecchio quartiere della città. Uomini e donne piangono. Kapu annota (non smetteva mai di prendere appunti): «Sto lì anch’io e piango con loro».
Il rispetto
Parlammo di Ismaele quel lontano giorno del nostro unico, vero incontro. Ismaele, il mozzo-narratore di Moby Dick, si domandava: «Ha senso circumnavigare la terra? Si torna sempre da dove siamo partiti». Ryszard rallentò appena i suoi passi sulla spiaggia: «Conosciamo già la risposta. Dobbiamo sempre essere insoddisfatti, cambiare i punti di vista, ma avere rispetto per il mondo. Bisogna camminare, riscoprire la lentezza. Non possiamo fermarci. Solo ogni tanto, per riprendere fiato. Ma anche Ismaele sa la risposta alla sua domanda: ci terremo i nostri dubbi, i nostri timori, ma continueremo a viaggiare». Buon cammino, Ryszard.
(Andrea Semplici)
Questo articolo è tratto dal numero 4/2019 della Rivista Africa, acquistabile online. Se ami il continente vero, ti invitiamo ad abbonarti alla Rivista Africa, approfittando delle promozioni in corso.