Un tessuto di origine ghanese viene usato (stavolta senza polemiche) dall’alta moda occidentale. Era la stoffa indossata tradizionalmente dai re ashanti del Ghana, emblema di prestigio e sacralità; oggi è usata in Occidente da griffe prestigiose che la propongono sulle passerelle. Nessuno pare scandalizzarsene. Eppure, in occasioni simili, attivisti e intellettuali neri avevano dato vita a vivaci contestazioni “per appropriazione culturale”. Che cos’è cambiato?
di Stefania Ragusa
Cédric Evans in Italia non è ancora molto conosciuto, ed è un peccato. Questo creativo parigino di origine ghanese, appassionato di moda e fondatore del brand KenteMust, è diventato un maestro nella realizzazione di papillon fatti al 90 per cento in kente e per il restante 10 in seta italiana. Il kente è un tessuto tradizionale che, con piccole differenze, si ritrova tra gli Ashanti e gli Ewe, in quella parte dell’Africa occidentale chiamata a lungo Costa d’Oro. «Nel 2018 sono stato in Ghana – ha raccontato Evans a Radio France Internationale –. Sono rimasto colpito dal colore e dalle fantasie offerte da questo tessuto. L’ho associato alla seta, che è un altro prodotto nobile, e ne è venuto fuori un prodotto eccezionale, in cui sento di aver trascritto la mia identità: francese e ghanese».
Sfilate a Parigi
I tessuti che Evans utilizza sono più moderni di quelli indossati tradizionalmente dai re ashanti, che hanno colori gialli, rossi, con fantasie grandi. Nei papillon di KenteMust troviamo fantasie più minute e adatte a un accessorio piccolo. In Ghana l’iniziativa è piaciuta. Il kente sarà anche la stoffa dei re, ma vederla apprezzata dall’industria fashion è una cosa che gratifica e riesce a smuovere interessi di varia natura. Anche Louis Vuitton, d’altra parte, ha messo molto kente nella sua collezione, sfilata a Parigi lo scorso febbraio.
Nessuna voce si è levata contro per denunciare usi indebiti o appropriazioni culturali. Questo non sarebbe degno di nota se non fosse che, in tempi non lontani, le cose sono andate in modo completamente diverso. E proprio in casa Vuitton lo sanno bene. Nel 2012, la maison era stata contestatissima per aver riprodotto i disegni delle coperte dell’etnia dei Basotho nella realizzazione di camicie, pullover e scialli, proposti ovviamente come capi di lusso. Si parlò allora di epic fail: plagio, appropriazione culturale.
Questione di pelle?
Da cosa dipenderà questo cambio di passo? Forse i grafismi basotho “valgono”, culturalmente parlando, più delle strisce di kente? O nell’Africa australe si è più sensibili a certe questioni rispetto a quella occidentale? La spiegazione è probabilmente molto più banale e rimanda all’organigramma di Louis Vuitton. Alla direzione artistica del brand, ai tempi del Basothogate, c’era il bianchissimo e disimpegnato Kim Jones. Dal 2018 troviamo invece il designer afroamericano Virgil Abloh, che si è distinto per impegno antirazzista e positive action a favore dei neri anche fuori dal contesto americano.
Ciò è stato considerato da diversi commentatori una garanzia sufficiente della correttezza dell’operazione, a prescindere dai profitti incamerati da Vuitton. Questo potrebbe spiegare anche perché Evans, pur avendo piegato un tessuto sacro a un uso profano, una stoffa africana a un accessorio occidentale, non sia andato incontro a contestazioni, mentre Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Christian Dior, è stata fatta mediaticamente a pezzi in seguito alla sfilata Cruise realizzata a Marrakech nel 2019. In quell’occasione Dior aveva presentato molti capi realizzati in wax, il cotone stampato a cera con riserva, considerato un vessillo dell’africanità. Proprio per non sbagliare, Chiuri si era affidata alla consulenza di Anne Grossfilley, una delle più competenti studiose di wax, e aveva scelto di rivolgersi, per le forniture, solo a produttori ivoriani qualificati.
L’oggetto dello scandalo
Anche se il wax, a differenza del kente, non è una stoffa tradizionale (ha origini asiatiche ed europee), non è ancorata a un uso sacro o regale ed è proprio questo carattere profano ad aver favorito la sua fortuna in tutto il continente, Dior si era impegnata per non dare adito a critiche. Non era stato sufficiente a metterla al riparo. I detrattori all’epoca avevano anche sottolineato l’insopportabile francesità coloniale di Dior, che nel caso di Vuitton guidata da Abloh si è volatilizzata.
Lo scandalo non sta evidentemente nell’oggetto dell’azione, ma nel colore della pelle di chi la compie. Ed essa può consistere nel rivisitare un tessuto e trasformarlo in una referenza di lusso o anche nel decidere di sfoggiarlo. Quando, l’anno scorso, i democratici statunitensi al Congresso hanno proposto, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, una legislazione per riformare la polizia, e per risultare più convincenti si sono tutti bardati con stole in kente, le contestazioni per appropriazione culturale sono fioccate. Ma i membri del Congressional Black Caucus fanno regolarmente lo stesso senza sollevare critiche, e non sono ovviamente tutti Ashanti di origine regale. Questo approccio caratterizzato da due pesi due misure, e una visione monolitica delle culture africane, sempre proiettata in contrapposizione con un altrettanto monolitico Occidente, dovrebbe suggerire più di una domanda. Per esempio che cosa si intenda davvero per appropriazione culturale e se ha senso ipotizzare, oggi come ieri, l’esistenza di produzioni culturali pure, da preservare dalle contaminazioni e contrapporre polemicamente.
In un mondo globalizzato
Può essere interessante ricordare a tal proposito che la stessa arte della tessitura del kente sarebbe arrivata tra gli Ashanti, a detta degli interessati, dagli artigiani del Kong, provenienti da un territorio che oggi si trova in Costa d’Avorio, e che già agli albori la seta utilizzata nella produzione del kente veniva da fuori. «Per quanto ci fossero nell’area piantagioni di cotone, in Ghana non si allevavano bachi da seta», ricorda John Gillow, uno dei maggiori collezionisti e conoscitori di stoffe africane al mondo. «I filati di seta venivano procurati in due modi: si trasportavano gli scarti della seta italiana attraverso il Sahara, a dorso di cammello; oppure si acquistavano pezzi di seta dai mercanti costieri». Non solo: la lavorazione originale del kente ashanti, che in origine contemplava solo l’utilizzo di cotone e seta, nel tempo si è modificata e capita di imbattersi in kente fatti con il raion.
La storia del kente è complessa e affascinante, anche nelle sue diramazioni ewe. Forse la preoccupazione, per chi ha a cuore le tradizioni africane, oggi dovrebbe essere quella di approfondirla e farla conoscere, scoprirla nei suoi sviluppi diacronici, valorizzarla, e non agitarla come una clava per scatenare dispute da social. Non è l’appropriazione a minacciare le culture, soprattutto in un’epoca globalizzata, ma l’oblio e la banalizzazione.
(Stefania Ragusa)
Questo articolo è uscito sul numero 4/2021. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.