Una forza lavoro qualificata è uno degli ingredienti essenziali per garantire a un Paese o a un intero continente di reggere le sfide economiche e sociali che si presenteranno nei prossimi anni. Ciò è tanto più vero – si legge in un lungo articolo del mensile Africa e Affari alla vigilia della festa del lavoro – alla luce di quanto sta accadendo a causa della pandemia covid-19, emergenza sanitaria che tocca severamente anche alcuni Paesi africani.
Il quadro della situazione offerto in questo ambito dall’African Economic Outlook, pubblicato dalla Banca africana di sviluppo (AfDB), pone evidenti sfide ai sistemi di istruzione dei Paesi africani, caratterizzati da evidenti criticità strutturali e numerosi “colli di bottiglia”. Per tali sistemi, la crisi sanitaria in atto rappresenta, ovviamente, un ulteriore fattore di stress.
I principali aspetti critici richiamati nel documento citato e che, anche in prospettiva, influiranno sulla creazione di una forza lavoro qualificata e pronta per un mercato del lavoro in continua evoluzione, sono i seguenti: numero medio di anni scolastici frequentati ancora troppo basso; elevato tasso di abbandono della scuola primaria; risultati scolastici carenti.
Riguardo al primo aspetto, il report dell’AfDB mette in evidenza come, nel 2018, vi sia stata una forte variabilità tra Paesi, passando da una media di circa otto anni di scuola per il Sudafrica (seguito a breve distanza da Mauritius, Botswana, Gabon e Zimbabwe) ai due anni di Burkina Faso, Niger, Mali. Valori molto bassi sono però riscontrabili anche in Paesi come Etiopia, Senegal e Mozambico.
La questione del tasso di abbandono è di particolare importanza per almeno tre ragioni: in primo luogo, si registra un valore medio di per sé piuttosto alto a livello generale (oltre il 30%), benché caratterizzato da un’elevata variabilità, passando dal 60% di Paesi come Etiopia, Uganda e Mozambico al 6% di Algeria, Egitto e Botswana; in secondo luogo, il tasso di abbandono si riferisce alla scuola primaria, implicando una fuoriuscita molto precoce dal sistema scolastico, nonostante gli sforzi di molti Paesi dall’inizio degli anni Duemila per dotarsi di una copertura quasi universale del livello scolastico di base; la terza ragione, infine, ha a che fare con gli elevati costi e i tempi lunghi per l’attuazione di adeguati programmi di recupero degli studenti persi per strada.
I risultati scolastici scadenti (abbondantemente sotto la media comunemente utilizzata a livello internazionale) testimoniano la presenza di una delicata questione relativa alla qualità stessa dell’istruzione impartita. In questo ambito, è opportuno ricordare che numerosi aspetti possono influenzare il dato: da situazioni di guerra (in corso o terminate da poco tempo) alla disponibilità di risorse scolastiche adeguate, fino alla qualità del corpo docente.
Tenere presente questa cornice di riferimento è utile per capire e interpretare altre evidenze importanti contenute nell’analisi dell’AfDB e che hanno a che fare con la forza lavoro africana attuale.
Circa il 60% dei lavoratori del continente è impiegato in professioni cosiddette low-skilled, per le quali, dunque, non sono richieste competenze (tecniche) specifiche. Solo il 10% è la quota di individui impiegati in lavori ad alto contenuto di competenze. Significativamente bassa è, inoltre, la quota di laureati in programmi rientranti nella categoria Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Tali carenze nella qualità e varietà della formazione incidono ovviamente sulla produttività del lavoro, ma richiamano anche un altro fattore: un significativo disallineamento (mismatch) tra le competenze possedute dai lavoratori e le reali necessità delle imprese. In altre parole, la formazione dei lavoratori, in particolar modo di quelli più giovani, viene percepita non di rado come inadeguata all’impiego occupato, o perché – come capita più spesso – insufficiente (under-education) o perché – soprattutto a mano a mano che si avanza nel percorso di studio – superiore alle competenze richieste (over-education), con inevitabili ripercussioni su stipendi, soddisfazione personale, facilità di ricerca del lavoro. Si assiste cioè a uno sfasamento tra quanto serve al mondo del lavoro e quanto i lavoratori sono in grado di offrire con la loro preparazione.
Il punto di vista delle imprese sul mismatch tra competenze richieste e competenze possedute è di particolare rilevanza. Un focus specifico realizzato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sugli imprenditori di quattro Paesi africani (Liberia, Malawi, Tanzania e Zambia) e richiamato nel report dell’AfDB, mette in evidenza come da parte delle imprese vi siano difficoltà a ricoprire circa il 40% delle professioni tecniche e circa il 20% di quelle manageriali. In questo senso, proprio l’Ilo ha recentemente avviato uno specifico programma, denominato Skill-up Programme, per affrontare in maniera sistematica la questione delle competenze necessarie per il mercato del lavoro, programma che coinvolge anche alcuni Paesi africani e in particolare Ghana, Senegal, Tanzania, Malawi e Etiopia.
In un contesto complesso come quello fin qui delineato, nel quale appare evidente la mancanza di una forza lavoro qualificata, una possibile strada da percorrere sarebbe quella di puntare sulla formazione tecnica e professionale, sviluppando dunque la capacità del sistema di istruzione di dialogare in maniera efficace con il sistema produttivo per fornire a quest’ultimo risorse umane con competenze adeguate.
Il report della Banca africana di sviluppo affronta la questione della formazione professionale/tecnica, anche detta Tvet (Technical and Vocational Education), mettendo in evidenza, tuttavia, più ombre che luci.
La formazione professionale, infatti, si ritiene sia sotto-utilizzata nel continente africano, per una serie di motivazioni specifiche. Innanzitutto, vengono citati gli alti costi della formazione tecnica, che in media sono doppi rispetto a quelli dei sistemi di istruzione “generale”. Non sono riportati in questo senso dati precisi che permettano di verificare i parametri su cui si basa tale analisi, ma sarebbe interessante approfondire la questione dei costi e la possibilità di affrontarli utilizzando (anche) risorse europee per rendere i percorsi formativi più sostenibili. Il programma Archipelago, per esempio, potrebbe rappresentare un’iniziativa interessante.
Una seconda motivazione allo scarso investimento nella formazione tecnica risiede nel modello “pedagogico” di riferimento, che si basa prevalentemente sulla formazione residenziale (in strutture ad hoc) piuttosto che attraverso la formula dei tirocini o della formazione on the job. Tale approccio sarebbe meno attraente nei confronti dei potenziali studenti.
Tra le altre cause, di particolare rilevanza è il rapporto tra formazione professionale e mercato del lavoro informale. Come affermato in precedenza, infatti, gran parte della forza lavoro del continente africano è impegnata in lavori low-skilled, che si svolgono soprattutto in maniera informale. Lavori a bassa qualificazione e informalità non si sposano con i percorsi mirati all’ottenimento di qualifiche tecniche specifiche.
Secondo l’analisi dell’AfDB, infine, la quota delle imprese che offrono formazione specifica ai propri dipendenti varia significativamente da Paese a Paese, passando da oltre il 50% di Rwanda e Botswana a meno del 20% in Paesi come Egitto, Senegal, Mali.
Come considerazione generale, il report sostiene che lo scarso ricorso alla formazione professionale è un’ulteriore causa della bassa produttività del lavoro nel continente africano. Alla luce degli effetti della recente crisi sanitaria a livello globale, è auspicabile che i Paesi africani investano dunque maggiormente non solo sull’intera filiera dell’istruzione, migliorandone la qualità, ma anche su un maggiore sviluppo del dialogo tra istruzione e imprese. La formazione professionale potrebbe essere un buon punto di partenza.