Era stato eletto alla presidenza della Tanzania nel 2015 sulla scia di una campagna elettorale costruita sull’impegno a un rinnovato vigore nella lotta alla corruzione. Forte dell’appoggio del Chama Cha Mapinduzi (Ccm), il partito fondato dal padre della patria Julius Nyerere, John Pombe Joseph Magufuli si era subito fatto notare per i suoi modi spicci e le sue posizioni nette e controverse. Scontata la sua rielezione per un secondo mandato (a ottobre del 2020), Bulldozer – questo il suo azzeccato soprannome – ieri è stato dichiarato morto dalla vice presidente Samia Hassan Suluhu. La versione ufficiale è di morte per arresto cardiaco seguito a un infarto e di un ricovero presso un ospedale di Dar es Salaam. Secondo altre versioni, avvalorate tra gli altri dall’esponente di opposizione in esilio Tundu Lissu, il presidente sarebbe invece morto a causa di un’infezione polmonare da covid, circostanza che al momento non trova conferma. Lissu era stato il primo nei giorni scorsi a sottolineare l’assenza di Magufuli dalla scena pubblica (l’ultima apparizione risaliva al 27 febbraio) e a sostenere che fosse in fin di vita a causa del covid. Proprio quel covid che lui aveva dichiarato sconfitto in Tanzania, lasciando il Paese aperto. Tra i pochi a non imporre misure restrittive, Magufuli aveva fatto prime ammissioni solo di recente sotto la pressione di organizzazioni come l’Oms che chiedevano dati sulla situazione reale e di casi di cronaca che avevano visto figure anche di rilievo del Paese soccombere al virus: tra questi il vicepresidente di Zanzibar, Seif Sharif Hamad.
Magufuli era così. Netto, tranchant in tutte le sue azioni, polarizzante. O ti piaceva o eri un suo critico. E negli anni di critiche ne aveva attirate, accusato da più parti di aver reso il Paese ancora più chiuso che in passato, di aver cristallizzato una scena politica comunque dominata dal partito fondato da Nyerere che ancora oggi usa la figura del grande statista, e tra i padri dell’Africa libera dal giogo coloniale, come elemento di unione nazionale e di propaganda politica.
La lotta alla corruzione era stata una delle battaglie di Magufuli e gli aveva attirato fin dagli esordi le simpatie popolari anche oltre i confini nazionali. Da subito aveva eliminato le sontuose celebrazioni del giorno dell’indipendenza in favore della pulizia delle strade e aveva vietato i viaggi all’estero non necessari per i funzionari pubblici. Alcuni di questi erano anche finiti in carcere per essere arrivati tardi a lavoro. Tuttavia, proprio questo interventismo giustizialista e questa sua modalità autoritaria gli avevano attirato le critiche di parte della comunità internazionale e i timori che la democrazia multipartitica tanzaniana diventasse di facciata. O, secondo le critiche più aperte, ancora più di facciata. A maggior ragione dopo il voto di ottobre, da più osservatori considerato poco trasparente.
La sua uscita di scena non sarà indolore. Da primo attore della politica, riferiscono fonti ben informate della Rivista Africa, Magufuli si era circondato di esponenti di governo politicamente “poco pesanti”. E proprio questa situazione, secondo le stesse fonti, avrebbe bloccato la comunicazione sullo stato di salute di Magufuli che a seconda delle versioni era ricoverato in un ospedale di Nairobi, in uno di Dar es Salaam o ancora in India; mentre Bulldozer stava vivendo i suoi ultimi momenti, dietro le quinte vari esponenti del partito al potere hanno preso tempo, si sono confrontati e misurati su come gestire la transizione. Una transizione che partirà da un’eredità comunque pesante.
(Gianfranco Belgrano)