Lydie Odiane è il nome della suora gabonese di una congregazione locale che è stata uccisa venerdì 20 marzo e il cui assassino domenica scorsa era già reo confesso. Un fatto di cronaca nera alla vigilia del 24 marzo, la giornata che la Chiesa cattolica dedica alla memoria dei missionari martiri da quando, il 24 marzo 1980, l’arcivescovo di El Salvador Óscar Romero fu assassinato all’altare, vero martire (proclamato santo due anni fa da papa Francesco) per la fede e la giustizia.
Da allora, in occasione del 24 marzo, ogni anno l’agenzia Fides redige una lista dei missionari uccisi nell’anno precedente. Per molti, è vero, non si tratta, “tecnicamente”, di martirio: come per suor Lydie, si muore anche per “banali” tentativi di furto o vittima di una violenza non di rado insensata. Trattandosi però di missionari, la loro fine violenta diventa simbolica anche della fine simile di molte altre persone con le quali hanno condiviso la vita, gioie e pericoli. E poi c’è il fatto che, come fa rilevare un prete messicano, in molti casi «eliminare un sacerdote è molto più che eliminare una persona, perché destabilizza un’intera comunità».
In questa chiave, fa presente Fides, «molto probabilmente devono essere letti alcuni degli omicidi, come quello di don David Tanko, ucciso da uomini armati mentre era sulla strada per il villaggio di Takum, in Nigeria, dove stava recandosi a mediare un accordo di pace tra due etnie locali in conflitto da decenni, o il barbaro assassinio di un’anziana suora nella Repubblica Centrafricana, suor Ines Nieves Sancho».
Sono, questi ultimi, due dei nomi della lista riferita al 2019, che ne elenca 29 in tutto il mondo – una lista in cui l’Africa detiene il triste primato con 15 caduti: 12 sacerdoti, 1 religioso, 1 suora, 1 laica. I Paesi più colpiti sono il Burkina Faso e la Nigeria (3 ciascuno), il primo a motivo del terrorismo jihadista, l’altro in un contesto diverso, non jihadista, dove si stanno moltiplicando anche i sequestri di religiosi. Una vittima ciascuno contano poi il Camerun, il Congo, la Costa d’Avorio il Madagascar, il Mozambico, la Repubblica Centrafricana, l’Uganda; 2 il Kenya.
Si noterà, scorrendo la lista, che ormai la maggior parte dei missionari e missionarie uccisi – 12 su 15 – sono africani, che in certo qual modo sigillano con il loro sangue il sostanziale passaggio di consegne da una Chiesa missionaria “bianca” a una Chiesa locale che testimonia dedizione e anche eroismo.
Verso il riconoscimento ufficiale
Il medesimo rapporto di Fides ricorda come nel passato anno ci siano state tappe significative nell’iter di alcune cause di beatificazione di veri e propri martiri: un folto gruppo di catechisti laici mozambicani e delle loro famiglie (23 in tutto), massacrati presso il Centro Catechistico di Guiúa, nel 1992, durante la guerra; i padri Ottorino Maule e Aldo Marchiol con la laica Catina Gubert, uccisi in Burundi nel 1995; nello stesso Paese, l’abbé Michel Kayoya, ucciso nel 1972 durante i massacri che presero di mira gli Hutu, e i quaranta seminaristi di Buta, nel 1997, questa volta in un contesto “opposto”, che si rifiutarono di suddividersi tra Hutu e Tutsi: sono i “martiri della fraternità”; in Zimbabwe ha preso il via la causa di beatificazione di John Bradburne, un laico francescano che si dedicò ai lebbrosi, e che morì anch’egli, nel 1979, di morte violenta.
(Pier Maria Mazzola)
Foto: il memoriale dei “martiri della fraternità” di Buta (Burundi)