Viaggio nel colorato e vibrante mondo dei pulmini di Nairobi. Sono i più popolari e iconici mezzi di trasporto del Kenya. Anarchici e irriverenti, originali e giovanili, hanno saputo reinventarsi e modernizzarsi, per restare al passo coi tempi e rispondere alle minacce di chi avrebbe voluti fermarli. Ora che hanno passato indenni la prova più dura, la pandemia, sono tornati ad animare le strade
di Marco Trovato – foto di Christian Bobst
La prima volta che a Nairobi salii su un matatu ebbi l’impressione di infilarmi in una scatola di latta con quattro ruote; l’ultima volta che è accaduto mi è sembrato di entrare in una navicella spaziale. Nell’arco di trent’anni – quello della mia esperienza – questi popolari mezzi di trasporto (paragonabili per certi versi ai dala-dala della Tanzania, agli ndiaga ndiaye del Senegal o ai tro tro del Ghana) si sono trasformati, rinnovati e hanno così saputo imporsi come signori assoluti delle strade keniane.
Matatu è parola swahili che significa “tre”: come la quantità di monete (centesimi di scellino) che costava una corsa a metà anni Settanta, quando i primi minibus privati fecero la loro comparsa sulle strade della capitale. Oggi il prezzo del biglietto varia a seconda della tratta, benché resti saldamente il più economico per spostarsi in una metropoli grande quattro volte Milano e abitata da quattro milioni e mezzo di abitanti. A differenza del passato, e da ormai parecchi anni, non è più necessario pagare in contanti. Basta un tap con il cellulare: un’apposita app permette di acquistare il ticket o l’abbonamento. Non è l’unica novità, ma dà il senso della capacità dei matatu, o meglio dei loro gestori, di stare al passo coi tempi.
La gente sopportava
In principio erano taxi collettivi senza itinerario prestabilito; i passeggeri salivano al volo sul mezzo che transitava sulla strada e rallentava di tanto in tanto per fare scendere qualcuno. Bastava posizionarsi ai lati della carreggiata, nella direzione desiderata, e in pochi minuti si veniva raccattati dal primo pulmino di passaggio.
All’inizio degli anni Novanta, i matatu avevano una pessima fama. Si diceva fossero gestiti dalla malavita e che fossero pericolosi. In effetti per lungo tempo la loro caotica attività nel traffico cittadino è sfuggita a qualsiasi tentativo di controllo e di regolazione. Non c’erano limiti di capienza. I ragazzi addetti alla vendita dei biglietti stipavano i pulmini all’inverosimile. Si finiva pigiati l’uno sull’altro. Una manna per i borseggiatori. Ricordo ancora la calca tra lamiere roventi, vetri crepati, il caldo soffocante dell’abitacolo, i miasmi che aleggiavano. In caso di incidente si rischiava la strage. I passeggeri avevano volti rassegnati. Mai visto manifestare insofferenza o mai sentita una voce di protesta. La gente sopportava. I pulmini sbuffavano nubi velenose mentre i conducenti usavano i clacson per farsi strada, ignorando i freni e le precedenze, facendo lo slalom tra gli ostacoli. Vigeva la legge del più forte. Gli autisti si guadagnavano spazio a sportellate, le carrozzerie erano perennemente ammaccate. I poliziotti corrotti, al soldo dei proprietari dei matatu, lasciavano correre.
L’arte di rinnovarsi
Poco più di un decennio fa, il governo di Nairobi ha tentato di porre un freno all’anarchia sulle strade, spingendosi a dichiarare i matatu “fuorilegge” per motivi di sicurezza. Il divieto è durato poco… Forse per le manifestazioni di protesta che agitavano le piazze, forse per gli interessi occulti di politici influenti coinvolti nel business dei pulmini. Di certo finora tutti i tentativi di regolamentare il sistema di trasporti pubblici sono miseramente naufragati. I diecimila matatu del Kenya rappresentano una potente lobby, ma è anche vero che i minibus godono di ampio sostegno popolare: la gente li prende ogni giorno, costano poco, non potrebbe farne a meno. E poi attorno ai matatu gravita una florida economia informale – fatta di piccoli commerci di strada e di venditori ambulanti che smerciano di tutto ai passeggeri alle fermate – che crea migliaia di posti di lavoro (che si sommano naturalmente a quelli di autisti, controllori, venditori di biglietti, meccanici…). A ben guardare, i matatu sono ormai un’istituzione, fanno parte dell’arredo urbano e, come le città che attraversano, in questi anni hanno saputo reinventarsi e modernizzarsi.
Oggi i mezzi sono attrezzati di ogni comfort: dall’aria condizionata al wi-fi. Il loro look si è fatto più smart e colorato. Se motori e telai continuano a essere recuperati di seconda mano e assemblati in qualche officina, le carrozzerie sono ravvivate e personalizzate da abilissimi writers capaci di dipingere sulle carrozzerie, con le loro bombolette spray, decorazioni che non possono passare inosservate (non è un caso che oggi i pulmini siano conosciuti anche come di manyanga, “bella ragazza” in kiswahili). Protagonisti delle loro creazioni sono star del cinema, musicisti, giocatori di calcio, a volte personaggi fantascientifici o figure bibliche.
Arredamento alla moda
Ma ciò che davvero lascia a bocca aperta è l’arredamento interno. Sedili in pelle o velluto dalle tonalità forti, rigorosamente in tinta con le tende del veicolo, accolgono i passeggeri in un ambiente che ricorda un discopub. Microcasse acustiche posizionate a pochi centimetri sopra i posti a sedere sparano decibel da concerto mentre enormi televisori a led trasmettono video musicali o partite di calcio. Il viaggio, lungo o breve che sia, non è mai noioso. «Attrarre, intrattenere e arrivare a destinazione: questa è la nostra missione», spiega Edward Nyachanchu, proprietario della Luminos Bus Company, che vanta una quarantina di bus da 14 posti. «La concorrenza è vivace, non possiamo essere da meno degli altri, anzi dobbiamo cercare di essere migliori: più efficienti e più belli».
I titolari dei pulmini non badano a spese per trasformare i veicoli. «Investiamo migliaia di euro per abbellire i nostri mezzi, ma sono soldi ben spesi». Certi matatu arrivano a ingaggiare dei dj, che durante il viaggio trasmettono musica dal vivo da una consolle ritagliata tra i sedili. In una metropoli vibrante e giovane come Nairobi (il 70% dei suoi abitanti ha meno di 25 anni) essere cool, alla moda, è una necessità impellente. «Ogni anno rinnoviamo i disegni della carrozzeria per sfoggiare le star del momento». Sui cofani e sulle fiancate compaiono rapper, popstar internazionali, calciatori, leader politici e così via. Le strade di Nairobi non sono mai state così colorate. Difficile dire se siano anche più sicure. Le norme che impongono la manutenzione dei mezzi ci sono, e piuttosto severe; rimangono le perplessità sul loro rispetto e sui controlli della polizia.
Futuro incerto
Quel che è certo è che le strade non sono mai state così rumorose e inquinate. «Per alimentare tivù, luci e impianto di amplificazione dobbiamo tenere sempre il motore acceso, anche quando siamo in sosta», spiega Collins Otieno Owino, tecnico del suono della Big Entertainment. «Altrimenti la batteria si scaricherebbe in pochi minuti». Risultato: Nairobi soffoca in una cappa di fumi velenosi e tonnellate di benzina vengono consumate a veicoli fermi. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che quasi 19.000 persone muoiano prematuramente ogni anno in Kenya per l’inquinamento atmosferico, compresi molti bambini. Ma fermare i matatu è un’impresa che pare impossibile. Solo la pandemia ci è riuscita.
Durante i mesi di lockdown, con la chiusura delle scuole, il coprifuoco e il divieto di assembramenti, c’è stato un crollo di passeggeri. Il settore dei trasporti è andato in crisi. Le banche hanno registrato un boom di mancati rimborsi di prestiti da parte dei proprietari dei pulmini (28 miliardi di scellini, 78 milioni di euro, solo lo scorso anno). Le società di matatu inadempienti sono decuplicate. Centinaia di veicoli sono andati all’asta. Oggi le cose vanno meglio, ma il futuro appare incerto. Gli autobus moderni, ecologici e standardizzati, potrebbero conquistare spazio anche qui. «Dobbiamo salvare i matatu prima che scompaiano», esorta Brian Wanyama, fondatore del Matwana Matatu Culture, un’organizzazione non profit che mira a tutelare e documentare questi “musei su ruote” attraverso il suo blog e i social media. «Rappresentano la cultura giovanile e l’arte urbana a Nairobi», argomenta. «Fanno parte della nostra vita. Nessuno può dire di non essere mai salito a bordo di un matatu. Quando ne vedi uno capisci di essere davvero a Nairobi. E capisci di non trovarti davanti a un semplice mezzo di trasporto, ma a una vera opera d’arte, patrimonio del nostro Paese da preservare e valorizzare».
Questo articolo è uscito sul numero 3/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.