di Enrico Casale
Il degrado e l’emarginazione si possono vincere. Il riscatto delle popolazioni, anche le più umili, è possibile. Il da fare è tanto, ma con umiltà e determinazione si può superare ogni ostacolo. È la lezione di un missionario che da più di trent’anni vive con migliaia di (ex) poverissimi nella cittadina che ha fatto nascere: da una discarica non lontano dalla capitale Antanarivo
L’esperienza di padre Pedro Opeka – argentino classe 1948, missionario vincenziano – nell’Isola Rossa, è suddivisa, come lui stesso racconta, in due parti. Quando, alla fine degli anni Settanta, è inviato in Madagascar, la sua prima destinazione è nel sud-est, dove opera presso comunità di contadini che coltivano il riso, e dove impara il malgascio. Là però si ammala e viene mandato nella capitale, a dirigere il seminario di Antananarivo. Siamo nel 1989, e a questo punto la sua vita cambia.
«Lavoravo come insegnante e me ne volevo andare», ha raccontato in un’intervista rilasciata al quotidiano Il Foglio. «Mi sentivo un po’ ribelle dal punto di vista spirituale, non riuscivo a rientrare in nessun modello. Il Vangelo è vita, non ha confini e limiti. È la forza dello Spirito di Dio. Quando sono partito per la capitale mi sono imbattuto in quest’immagine di migliaia di bambini su cumuli d’immondizia. Vederli vivere lì, litigare con gli animali, disputarsi brandelli di rifiuti per cibarsi, mi ha sconvolto. Non sono più riuscito a parlare. Sono caduto in ginocchio e ho pregato il Signore perché mi aiutasse a fare qualcosa con i suoi bambini».
Padre Pedro pensa così di rimboccarsi le maniche e propone alla popolazione di mettersi a lavorare insieme per cambiare il proprio destino. «Abbiamo cominciato senza soldi, che sono venuti dopo», ricorda oggi. «Avevamo la passione, la fede, la convinzione che Dio non abbandona mai i più poveri, soprattutto i bambini, che sono innocenti, nell’estrema povertà. Abbiamo coinvolto i genitori. “Amate i vostri figli?”, ho chiesto loro. “Certo che sì”, mi hanno risposto. “E allora andiamo a lavorare. Aiuteremo i bambini a frequentare una scuola e per poter vivere insieme fisseremo norme per la nostra comunità”. Tutti hanno detto sì al lavoro, alla scuola, a una legge comune e alla disciplina».
Il granito diventa vita
Nasce così l’idea di sfruttare la cava di granito che sorge accanto alla discarica. Padre Pedro sa usare martello e scalpello. Glielo ha insegnato suo padre, muratore sloveno emigrato in Argentina per sfuggire al regime comunista di Tito. «Abbiamo preso in mano picconi e martelli, abbiamo aperto una miniera per estrarre il granito», spiega al settimanale Famiglia Cristiana. «Vendevamo la pietra estratta alle imprese di costruzione, che poi ci aiutavano a costruire le nostre case». La miniera s’ingrandisce e serve un numero sempre maggiore di operai. Ma ad Akamasoa, questo il nome della nuova, articolata realtà sociale che sta sorgendo, non ci sono problemi di manodopera. La miniera dà lavoro a tantissimi e finanzia gran parte dei servizi collettivi.
Oggi vivono ad Akamasoa, che qualcuno ha chiamato “la città dell’amicizia”, 25.000 persone. Gli adulti lavorano, i bambini vanno a scuola, fanno sport e frequentano gli spazi di socializzazione. Sono stati realizzati luoghi di preghiera di cui anche la Conferenza episcopale malgascia ha usufruito per i propri ritiri. In trent’anni sono stati costruiti diciotto villaggi, con case di mattoni e strade pavimentate. In ognuno dei villaggi vive un migliaio di persone, che ora dispongono di negozi, officine, fontane, illuminazione, scuole, asili nido e centri sanitari, un ospedale, uffici amministrativi, sale riunioni, campi sportivi e luoghi di culto. Tutti gli abitanti lavorano e in ogni villaggio la comunità gestisce il proprio governo locale.
Qui ridono perché sono felici
«Ricordo quando abbiamo festeggiato il venticinquesimo anniversario di Akamasoa», racconta padre Pedro, «e la gioia senza limiti di 30.000 persone, orgogliose delle loro opere, orgogliose di stare a testa alta davanti a rappresentanti del governo e diplomatici e di mostrare la loro gioia di vivere. La comunione che abbiamo provato quel giorno è ancora un altro ricordo che rimarrà con me per sempre. Abbiamo anche ricordi profondamente tristi, legati ai bambini e alle giovani madri che sono morti a causa della mancanza di medicinali adeguati».
Il popolo del Madagascar ha un talento speciale, spiega il religioso vincenziano, sa ridere, ma si può ridere senza essere felici. «Ad Akamasoa», continua, «i bambini ridono perché sono felici. Siamo un Paese con ricchezze grandi, che resta povero per la corruzione dei suoi governanti. Quanti potenti d’Africa mentono al popolo! Bisogna ribellarsi, non con la violenza, ma con il cuore, e con la giustizia, che sovrasta la legge. Spesso le leggi sono fatte per i ricchi, e i poveri continuano a soffrire. Non inganniamoci: non sempre la gente ride ed è felice. I miei amici sì, lo sono. I governanti in Africa non hanno paura dei missionari, che sono gente buona. Voglio rendere onore a tutti i missionari che lavorano nei boschi, nelle foreste e nei villaggi, che tengono desta la speranza del popolo finché un giorno arrivi la giustizia, il lavoro. Senza di loro, l’Africa sarebbe ancora peggiore».
«La povertà non è una fatalità»
Il nome di padre Pedro si diffonde nel continente e nel mondo (è stato più volte candidato al Nobel per la Pace), e arriva fino in Vaticano. Nel suo viaggio del 2019 in Madagascar, papa Francesco si reca ad Akamasoa. Il 28 maggio dello scorso anno il vincenziano gli restituisce la visita. «Quando si è aperta la porta, mi ha detto: “Pedro, come stai? I vescovi del Madagascar mi hanno parlato di te. Hai pensato a chi ti sostituirà?”», ricorda. «Una domanda che dice tanto anche del rapporto di Francesco con la vita: la morte non gli fa paura. Viviamo per compiere una missione e dobbiamo pensare a chi ci succederà nella lotta all’ingiustizia. Con Akamasoa abbiamo dimostrato che la povertà non è una fatalità. Bisogna crederci e impegnarsi con i poveri».
Nonostante la notorietà, padre Pedro continua a vivere in modo umile. Si alza la mattina alle 5 e comincia a lavorare. «Bisogna dare l’esempio per convincere le persone e per dare loro fiducia», dice al Foglio. «Senza la fiducia dei miei fratelli poveri non si arriva lontano. Si intercettano i poveri con tre parole: lavoro, educazione e disciplina. Non sono parole semplici: sulla disciplina si può non essere d’accordo. Quando chiedi e pretendi senza dare l’esempio, si tratta solamente di buoni consigli. Il mondo è pieno di persone anche importanti che parlano bene, ma non fanno quel che dicono. Se in Madagascar in una discarica la gente mi ha seguito, ciò è accaduto perché si è visto che vivevo quello che chiedevo, insieme con loro. E io sono un bianco in Madagascar. Ma nelle discariche non esistono bianchi e neri, soltanto fratelli, perché sentiamo il fuoco dei figli di Dio che sono uguali tra loro».
Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.