di Claudia Volonterio
Sta facendo discutere in Uganda l‘intenzione del presidente Yoweri Museveni di bloccare le importazioni dei vestiti di seconda mano, provenienti da Stati Uniti ed Europa. Un annuncio che si è presentato come un vero schiaffo per i milioni di lavoratori impiegati in questo settore. Nonostante le conseguenze disastrose, da non sottovalutare, dell’inquinamento tessile, l’usato in Africa è un settore ampio che riguarda diverse aziende che riciclano vestiti di seconda mano, artigiani, venditori che si guadagnano da vivere. Un giro d’affari che vale milioni di dollari.
Alla fine dell’estate il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, ha annunciato un divieto sull’importazione di vestiti di seconda mano. Una mossa inaspettata che è stata presentata così dal presidente ugandese: “Smettetela di comprare vestiti di seconda mano, questi vestiti sono per i morti”, riporta il Guardian. Un’affermazione che riprende il tipico modo in cui, non solo in Uganda, vengono soprannominati i vestiti importati dall’Occidente: i “vestiti dei bianchi morti”. In realtà, riporta il Guardian, il fast fashion degli abiti usati è molto più veloce, le persone non muoiono così velocemente come arrivano i container di indumenti o come passa la moda. Ma questo modo di dire spiega in parte le ragioni che hanno spinto Museveni a imporre il divieto. Dietro c’è il tentativo di preservare la filiera tessile ugandese e africana, che secondo Museveni, è messa in pericolo dal mercato degli abiti usati.
I funzionari commerciali, riporta VOA, non hanno ancora applicato la dichiarazione del presidente, che richiede una misura legale, come un ordine esecutivo. Ma discussioni sulle conseguenze di questa decisione stanno già circolando.
Il tentativo di limitare l’importazione degli abiti usati ha riguardato in passato anche altri Paesi, Uganda compresa, come Burundi, Congo, Kenya, Ruanda, Sud Sudan, Tanzania che già dal 2016 hanno cominciato a cercare di bloccare l’importazione di indumenti usati. Al centro della discussione c’è l’interrogativo sull’effettivo danno economico e commerciale reale che questi indumenti hanno sulla filiera africana.
Secondo il Guardian, i vestiti usati rappresentano invece una preziosa fonte di entrate fiscali per i Paesi africani. Un divieto in un Paese come l’Uganda “è un voto a favore del suicidio economico”.
Secondo l’Uganda Dealers in Used Clothing and Shoes Association, sono oltre 4 milioni gli ugandesi attivi direttamente e indirettamente nella filiera degli indumenti e dei tessili usati. Bloccare l’importazione porterebbe a delle conseguenze economiche importanti e a tanti interrogativi. Cosa succederà ai container già in viaggio verso l’Uganda? Si chiede il Guardian, Verrebbero rispediti indietro? Per non parlare degli oltre 50.000 venditori dell’Owino Market di Kampala, uno dei maggiori mercati dell’usato della regione: otterranno un risarcimento o verranno lasciati a casa senza tutele? Quale sarà il destino di tutte le piccole imprese che riciclano vestiti di seconda mano?
Oltre al lavoro di tante persone, c’è anche da chiedersi quale sarà l’impatto sulle abitudini degli ugandesi. I vestiti venduti nel mercato di Owino a Kampala sono solitamente a basso costo, ma comunque in buone condizioni e vengono acquistati da tantissime persone, ricche e povere, spiega Voa. Da considerare, inoltre che, secondo una ricerca condotta nel 2017 dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, circa due terzi delle persone in sette paesi dell’Africa orientale hanno “acquistato almeno una parte dei propri vestiti dal mercato dell’abbigliamento di seconda mano”.
Alcuni specialisti del riciclaggio tessile, in vista del bando, si legge su letsrecycle.com, hanno chiesto che venga applicato un approccio graduale per ridurre le importazioni di indumenti usati, alla luce delle tante persone che si affidano a questo settore per non solo per compare, ma per guadagnarsi da vivere.
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