Percorrere il corso del Niger è un’esperienza che tocca nel profondo. Si naviga al ritmo lento delle pinasses, con le loro vele rammendate che intercettano le brezze stanche del deserto, fino a lambire le dune di sabbia e le antiche città carovaniere. Ma oggi le acque pigre e gloriose del leggendario fiume sono testimoni mute dei drammi del Sahel
di Marco Aime
L’antropologo Marco Aime terrà il 15 e 16 ottobre un seminario sul Sahel, a Roma e in streaming. Programma e iscrizioni: https://www.africarivista.it/sahel/
Strano destino quello del Niger: nasce a soli 240 chilometri dall’Atlantico, nel quale potrebbe andare a gettare pacificamente le sue acque, attraversando le colline verdeggianti del Futa Djallon, invece si lancia verso est, in una grande avventura attraverso le piane arroventate del Sahel, penetra nel Sahara, compiendo un arco vastissimo, fino a piegare verso sud, fino a raggiungere lo stesso oceano, ma 4184 chilometri dopo. Una corsa che ha dato la vita a molte popolazioni, che grazie alle sue acque vivono di pesca di allevamento. Una corsa che però costa cara al fiume. Il clima, sempre più frequentemente segnato da siccità prolungate, ha marcato in modo pesante il Niger. Il sole lo dissangua. Dopo le terribili stagioni del 1972-73, con una piovosità inferiore del 75% alla già carente media locale, l’arsura provoca regolarmente una forte evaporazione nei maggiori corsi d’acqua. Il Niger che a Koulikoro, ha una portata di 1074 m3/sec, circa 600 chilometri dopo vede le sue acque ridotte a 560 m3/sec, quasi dimezzate, una sorte simile a quella degli altri fiumi della regione.
Percorrere il corso del Niger è un’esperienza che tocca nel profondo. Se la celebre risalita del fiume Congo, magistralmente narrata da Joseph Conrad, significava addentrarsi nel «cuore di tenebra» dell’Africa, percorrere le acque collose del Niger è come andare verso un nulla sempre più luminoso, sempre più pallido, dove tutto si dissolve lentamente. Queste rive non lasciano spazio a mondi misteriosi, popolati da selvaggi feroci, dediti a culti pagani. Non nascondono nulla agli occhi del viaggiatore. Tutto svanisce attorno a te e lo vedi. Il Congo di Conrad creava paura, il Niger ansia e spaesamento per il vuoto che ti circonda. Il Sahel è un’eterna attesa. La sensazione che si prova percorrendone le piste sabbiose è che qualcosa, in quelle piane seccate dal sole, stia sempre per arrivare o accadere. Il Sahel è anche e soprattutto un’assenza. Stupisce più per ciò che manca che per ciò che si vede.
Si naviga al ritmo lento delle pinasses, con le loro vele fatte di sacchi del cemento cuciti assieme. Enormi rattoppi che intercettano le brezze stanche del fiume, per sospingere genti e merci. Solo così si riesce a leggere il paesaggio, fatto di terra, sabbia, animali e genti che vive lungo le rive del Niger. Sulle rive sfilano lenti villaggi fatte di case di terra, tra le quali sono sorte leggere cupole di paglia, che segnano la presenza di nomadi o ex nomadi, aggregatisi ai villaggi di pescatori bozo. Le siccità degli anni Settanta hanno decimato le mandrie di questi allevatori e alcuni sono stati costretti ad abbandonare il loro stile di vita per diventare sedentari. Molti però hanno conservato il loro stile di vita nomade, l’unico possibile per sopravvivere in un ambiente come questo. Le mandrie che percorrono lentamente le rive del Niger sono parte del paesaggio, così come le piccole piroghe dei pescatori bozo, che solcano le onde in cerca di un buon posto dove gettare le reti. Nella stagione secca le acque del fiume si abbassano e lasciano affiorare dei piccoli isolotti erbosi nel mezzo del fiume. I pescatori allora si spostano e vi costruiscono capanne di fortuna e sfruttano nuove zone di pesca. La vastità del Niger a volte lascia attoniti, come nel tratto in cui dà vita al Lac Debo. Qui il fiume perde il controllo delle sue rive e a volte è battuto da violente tempeste che mettono in difficoltà le imbarcazioni.
Il fiume allevia in parte la sete del Sahel, ma talvolta può diventare causa di deterioramento del suolo. Le acque del Niger, con la loro azione continua, determinano un processo di erosione delle rive sabbiose. Per questo, in alcune zone, i contadini hanno iniziato da alcuni anni a piantare il borgou, una graminacea acquatica tipica delle zone saheliane, il cui stelo può misurare da 3 a 7 metri a seconda del livello dell’acqua. Il borgou cresce nell’acqua e nelle piane allagate dal suolo argilloso e, formando delle fitte «isole» con i suoi steli, frena le onde del fiume e attenua la sua azione disgregante. Oltre a servire come barriera contro le acque, è un ottimo foraggio, che serve ad arricchire l’alimentazione delle mandrie che i peul conducono attraverso le aride pianure dell’ansa del Niger.
Via via che si scende, il fiume penetra nel deserto e il paesaggio si fa sempre più arido man mano che si percorre la grande ansa. Gli alberi si diradano, fino a lasciare il posto ad arbusti solitari, le cui radici contorte e rattrappite sembrano denunciare la loro volontà di sopravvivere a un sole sempre più aggressivo. Poi la sabbia. Le dune scendono fino a lambire l’acqua. Siamo nel Sahara. Non è casuale, infatti, che proprio nel punto in cui il Niger penetra più a nord nel deserto, sia sorta Timbuctu, il luogo dove, come scriveva il cronista arabo As Sadi: chi viaggia in piroga, incontra chi viaggia in cammello. Era un luogo quanto mai strategico per il commercio. Qui si scambiavano merci provenienti dal Mediterraneo con beni che arrivavano dall’interno dell’Africa.
Ai fasti del passato non corrisponde un presente altrettanto glorioso. Le antiche città carovaniere come Timbuctu e Gao sono oggi in forte declino, segnate dall’isolamento, dall’avanzare del deserto e dal terrorismo. E anche le realizzazioni più moderne non portano certamente benefici alle popolazioni che vivono sul Niger. Dopo aver piegato a sud, il grande fiume si lancia nella sua corsa verso il mare e proprio qui, nella regione acquitrinosa del delta, le ultime onde sono testimoni di una tragedia che si sta consumando da anni. Da quando, negli anni Settanta quest’area, ricca di petrolio, è stata presa d’assalto dalle più grandi compagnie mondiali del settore, che ne hanno devastato il territorio.
La devastazione ambientale associata e la mancanza di una equa distribuzione delle ricchezze prodotte alla popolazione, sono le cause determinanti del conflitto che a partire dagli anni Novanta, vede opposte le popolazioni locali all’esercito nazionale. Un brutto finale per un viaggio, quello del Niger, che attraversa l’Africa occidentale come un’arteria vitale, soffrendo anch’esso, assieme alle popolazioni che lo abitano, nel bene e nel male.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop