di Irene Fornasiero
I Vezo del Madagascar trascorrono la vita navigando a bordo delle loro piroghe, seguendo il vento e le correnti, alla ricerca di banchi di pesci. Vivono in simbiosi con l’oceano e sono determinati a proteggerlo.
Le loro piroghe a bilanciere, piccole e leggere, scavate in un tronco, accarezzano le acque dell’Oceano Indiano, sospinte dagli alisei meridionali che soffiano nel Canale del Mozambico. Si spostano in continuazione lungo le coste sud-occidentali del Madagascar, sfruttando l’alternarsi dei venti e delle maree che agitano le acque al Tropico del Capricorno. Da oltre mille anni fanno parte del paesaggio superbo di questa remota regione della Grande Isola.
Vivono di pesca, seguendo per interi giorni banchi di tonni, barracuda, marlin. Quando la sera toccano terra, trasformano le vele quadre delle imbarcazioni in tende improvvisate sotto cui trascorrere la notte. E l’indomani tornano a navigare. Conducono un’esistenza in perenne movimento che li ha fatto guadagnare la fama di “nomadi del mare”. Sono chiamati Vezo (pronuncia vezu), nome che tuttavia non indica una vera e propria etnia quanto piuttosto un modo di vivere: in simbiosi con il mare.
Figli di una sirena
Incapaci di allontanarsi dall’acqua, abitano una sottile striscia costiera compresa tra le città di Itampolo (sud) e Morondava (nord), tra le acque turchesi dell’oceano e spiagge bianche e morbide come il borotalco. Narra la leggenda che siano nati dall’incontro tra un pescatore e una sirena così bella che l’uomo, follemente innamorato, tentò in tutti i modi di trattenerla in casa. Ma lei non poteva vivere fuori dal mare. Un giorno lo convinse a fare un giro in barca e, quando furono al largo, si tuffò in acqua per non tornare mai più.
La disperazione del pescatore fu alleviata solo dalla presenza dei figli. Furono loro i primi Vezo. Crescendo avrebbero preso la strada del mare per cercare, in tutti i modi, di incontrare la loro madre.
«Vezo si diventa»
Come per la maggior parte delle popolazioni del Madagascar, i Vezo hanno origini asiatiche. La loro lingua è simile a un dialetto diffuso nel sud del Borneo. Tuttavia, come si diceva, i Vezo non sono considerati formalmente un popolo: secondo gli etnologi, sarebbero un sottogruppo della famiglia dei Sakalava (popolo di pastori e contadini con cui peraltro scambiano i prodotti del mare con riso e manioca). «Non si nasce Vezo, lo si diventa», spiega l’antropologo Alberto Salza (autore di “Nomadi del mare”, Africa 4/2015). «Un Vezo si riconosce dai segni che il tempo ha lasciato sul suo corpo. Per prima cosa, la pesca segna le mani: le lenze, appena il pesce abbocca, incidono la pelle in segni caratteristici; anche il torace è coinvolto, dato che, durante gli spostamenti a pagaia, le lenze si arrotolano attorno alla vita per non perderle; se abbocca un pesce, la frizione è direttamente sul petto. I graffi rossastri cicatrizzano in striature bianche da mostrare a chi voglia capire la “vezosità” di una persona. A contrasto, le donne mostrano i piedi piagati dalla raccolta di molluschi sulla barriera corallina o di piante selvatiche sulle dune, ma indicano la loro qualità di Vezo anche perché non hanno i calli alle mani come le agricoltrici masikoro».
I racconti sui Vezo fatti da osservatori occidentali sono stati viziati per lungo tempo da sguardi intrisi di pietismo («gente povera che vive in un mondo arretrato») o di esotismo («liberi come il vento che sospinge le loro esistenze»). Oggi cominciamo a guardare a questo gruppo con occhi diversi. Le ricerche condotte sulla costa malgascia sud-occidentale stanno facendo emergere la straordinaria ricchezza del bagaglio di conoscenze sull’ambiente custodito dai pescatori e tramandato da secoli nelle famiglie.
Divieti eco-friendly
Non solo: gli studiosi non finiscono di stupirsi della capacità dei Vezo di vivere in stretta relazione con l’oceano, godendo dei suoi frutti, rispettando profondamente i ritmi della natura, senza minimamente intaccare i delicati equilibri dell’habitat marino. Mentre in altre parti del mondo le acque oceaniche sono saccheggiate dall’ipersfruttamento ittico, i Vezo continuano a pescare e a raccogliere dal mare solo lo stretto necessario per vivere. Non conoscono avidità e ingordigia. Rispettano rigorosamente una serie di tabù – fady –, divieti di carattere magico-religioso che permettono di preservare l’ambiente. Qualche esempio? Non pescare determinate specie ittiche durante il periodo della riproduzione, non calpestare le porzioni di spiaggia dove si trovano uova deposte dalle tartarughe marine.
Secondo le credenze locali, trasgredire una proibizione, infrangere un fady, produrrebbe severe punizioni generate da forze che controllano gli umani destini. Morale: tutti i Vezo rispettano il tradizionale codice di comportamenti e interdizioni – gran parte dei quali riferiti alla preservazione della natura – stilato nell’antichità, ben prima che fossero ratificate le moderne leggi e convenzioni internazionali per la tutela i mari.
Nuove riserve marine
Da loro arriva una lezione preziosa, specie oggi che anche le acque del Madagascar sono minacciate da un progressivo impoverimento dovuto alla pesca industriale e ai cambiamenti climatici. I Vezo, certo, hanno ben poche armi per contrastare fenomeni su scala globale, tuttavia non sono spettatori passivi di ciò che accade nei loro mari. Con l’aiuto dell’associazione ambientalista Blue Ventures, i Vezo sono stati coinvolti nella creazione e nella gestione di due riserve marine, Velondriake e Barren Isles, tra le più importanti dell’Oceano Indiano occidentale, grazie alle quali oggi salvaguardano la fauna ittica e l’economia tradizionale. Solo proteggendo la biodiversità marina di queste acque i Vezo potranno garantirsi la sicurezza alimentare e mantenere inalterato il proprio stile di vita, trasmettendo la conoscenza da una generazione all’altra.
«Peschiamo e ci immergiamo per guadagnarci da vivere», dice Symphorien Soa, un Vezo coinvolto nelle attività di Blue Ventures. «Il mare è la prima cosa a cui pensiamo quando ci svegliamo al mattino. Ed è quello che sogniamo quando andiamo a dormire». Vivono giorno per giorno fino alla fine della loro esistenza, allorché vengono seppelliti in tombe circondate da pali con rappresentazioni erotiche e marine: quando si abbatteranno al suolo, l’anima del defunto potrà liberarsi definitivamente.
Questo articolo è uscito sul numero 4/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’eshop.