di Alberto Salza – foto di Luis Tato / Afp
Al confine tra Kenya e Uganda un popolo di pastori “opportunisti” è in guerra per il controllo dei pascoli. I cambiamenti ambientali e la progressiva scomparsa del foraggio contribuiscono ad accrescere le tensioni tra le comunità che si contendono le risorse nelle sempre più aride savane dell’Africa orientale. A causa della mancanza di erba, da anni le zone aride del Kenya sono teatro di guerra: tutti contro tutti, con i Pokot al centro di ogni battaglia
Nelle aride savane del nord del Kenya, a dormir fuori la notte si sentono sibili inquietanti. Niente di che: si tratta di una bassa acacia dalle micidiali spine bianche (Vachellia drepanolobium). Dato che è infestante, l’attuale crisi climatica le ha dato la chance di sostituire l’erba. Il fenomeno non è una novità. Già alla fine dell’Era Glaciale, in Europa, il riscaldamento dell’atmosfera favorì lo sviluppo di cespugli a danno dell’erba, vulnerabile alle alte temperature. È per quello che eravamo ad Amaya, in pieno territorio dei pastori Pokot: la fine del pascolo, la guerra per l’erba.
I Pokot abitano un mosaico ambientale – foreste, praterie, savane aride, zone a cespugli, deserti – che si estende dalle pianure dell’Uganda orientale, supera le asperità montuose (Cherangani, Sekerr e Chemerongit, oltre i 3.000 metri) che delimitano l’altopiano occidentale del Kenya, per arrivare al Grande Rift Africano dalle parti del Lago Baringo.
Pastori opportunisti
La variabilità dell’habitat ha cambiato oltre la metà dei Pokot in pastori opportunisti che non disdegnano l’agricoltura ove praticabile (valle del fiume Kerio) e quando vantaggiosa (dopo le piogge, tra marzo e giugno). La variabilità dell’ecosistema da cui i Pokot traggono le risorse spiega la non specializzazione del loro bestiame, che comprende dromedari, vacche, capre, pecore e asini. Nell’area, i Pokot furono tra i primi a evolvere le identità multiple, liquide, che contraddistinguono la modernità dei pastori africani. La vacca, però, resta l’animale simbolo dei Pokot (che geneticamente sono appartenenti al gruppo dei Karamojong): farebbero di tutto per possederla e difenderla. Gli erbivori sono la causa dei fischi notturni. In tutta la fascia orientale africana, le acacie spinose ricoprono le poche erbe rimaste. Il bestiame è pertanto costretto a cibarsi delle foglie. Questo induce nei rami delle acacie grosse escrescenze bulbose. Le galle sono piene di sostanze nutrienti e zuccherine; così attraggono diverse specie di formiche. La relazione tra acacia e formica è di mutuo soccorso: la pianta nutre l’insetto, il quale produce buchi nelle galle; è lì che entra il vento, producendo fischi a mo’ di flauto, suoni che spaventano gli erbivori, proteggendo l’acacia.
Il ciclo ha come conseguenza la fine dell’erba, il fattore limitante per tutti i pastori. Per i Pokot, l’erba non è solamente il modo di trasferire indigeribili proteine vegetali nella propria alimentazione: l’erba è un sistema culturale. Per esempio, il seret (Cynodon nlemfuensis) serve per la dote, per segnali di ospitalità o, legata attorno al contenitore del latte, per avvisare che non si è dei ladri.
Mediatori di pace
A causa della mancanza di erba, da anni le zone aride del Kenya sono teatro di guerra: tutti contro tutti, con i Pokot al centro. Noi eravamo ad Amaya per tentare una pacificazione tra Samburu e Pokot dopo cinque anni di razzie e faide tra vaccari. Di notte, eravamo contenti di sentir fischiare le acacie, non le pallottole. Ad Amaya c’era un cippo davanti alla scuola elementare: parlava di pace. Trascurando i buchi nei muri, ammirai la scuola abbandonata. Allora il custode (unico Samburu rimasto) mi disse: «Un giorno arrivò un americano con gli occhiali. Decise che una scuola avrebbe unito i bambini turkana, pokot e samburu. E la fece costruire. Per il futuro». Era Bill Gates al suo primo fallimento.
Anche noi le avevamo provate tutte: allestito un mercato interetnico (“la casa di nessuno” per gli africani); costruito un dispensario per malati e feriti, offerto banchetti di carne e polenta, allestito asili all’aperto sotto le acacie, indetto riunioni di pacificazione con improbabili rituali. Contrariamente alle altre comunità, i Pokot non hanno pratiche di riconciliazione: così passammo una notte a subire un operatore che soffiava dentro uno strumento ligneo simile al didgeridoo, mentre saltellava invasato; nel frattempo, in mancanza d’altro, alcuni anziani masticavano la radice di un’erba per poi sputare a gran forza in ogni direzione. Sempre meglio del rituale di pacificazione dei Dassanech a nord del Turkana, che sacrificano un animale, ne versano gli intestini e poi si spalmano reciprocamente la pasta verdastra sul corpo (vedi Africa, “La festa della pace”, 2/2018, pp. 50-54).
Gente con la testa quadra
Andando a passeggio per alcuni anni in quella regione desolata, popolata da pastori e predoni, avevo incontrato gli altri nemici dei Pokot, i Turkana. Dopo uno scontro, andai a vedere i morti. Ho difficoltà a distinguere un Turkana da un Pokot da vivo (stessa genetica, religione, economia, dieta, costumi, fino all’acconciatura; solo qualche perlina di differenza, oltre alla lingua), figuratevi da morto. Così chiesi a un Turkana come potessero ammazzarsi a vicenda. «Ma non vedi che i Pokot hanno la testa quadra?», mi rispose. Naturalmente, non c’è niente che non vada nella forma cranica dei Pokot, piuttosto in quel che vi è contenuto: il substrato cognitivo profondo accumulato dalle generazioni in funzione delle pressioni subite dall’ambiente fisico e sociale che ha portato alla reciprocità negativa tra i vari gruppi umani. Si tratta del fenomeno “io contro l’altro”, dove la percezione culturale (emotiva) si oppone all’evidenza esperienziale (cognitiva).
Nel suo insieme, la comunità dei Pokot è percepita da tutti gli altri gruppi dell’area come «ostile e aggressiva». Reciprocamente, per i Pokot, la parola “straniero” è “nemico” (pung), punto e basta.
La sindrome del proiettile
Nonostante la modernità (cellulari, sedentarizzazione, motociclette, previsioni meteo, assicurazioni, ecc.), per i Pokot vale ancora il mito d’origine: Tororot, il dio-pioggia, ha creato i Pokot e ha assegnato loro tutto il bestiame. Di conseguenza, gli altri pastori sono ladri, e questo torto va raddrizzato con la razzia violenta e continuativa, oggi sostenuta dalle armi automatiche. Il guaio è che anche gli altri pastori la pensano allo stesso modo: la violenza mimetica, senza pacificazione imitativa, genera escalation nel conflitto tramite la cosiddetta “reazione sproporzionata”. Così, secondo un calcolo approssimativo che iniziai nel 1984, oltre trecentomila capi di bestiame “cambiano proprietario” dalle parti del Lago Turkana, ogni anno.
Probabilmente, alcune vacche sono oggetto di furto multiplo (razziate più volte da gruppi diversi); si complica la sommatoria, ma il numero è notevole, data la scarsa densità umana della zona. La razzia armata è ormai fuori controllo; Aguman, un anziano pokot, mi disse a Kainuk: «Noi soffriamo di una sola malattia: la sindrome del proiettile. Nessuna di queste tombe è di una persona morta di tubercolosi, o aids, o neppure malaria». Anche l’inganno è considerato un valore dai Pokot. Secondo la leggenda locale, il nome suk, affibbiato ai Pokot dai colonialisti, deriva da un anziano coltivatore che, bruscamente interrogato su di che “tribù” fosse, rispose: «Musuk», “ceppo”. I Pokot sghignazzano ancora adesso sulla scemenza europea davanti alla loro astuta ambiguità.
Yogurt con la cenere
Eh, già. L’ultima volta che ho incontrato un gruppo pokot è stato a Torino, durante Terra Madre. Vendevano yogurt di un loro presidio. «Lo yogurt con la cenere – da latte crudo – ha una consistenza omogenea, densa ma fluida. Dal latte di vacca e di capra – lavorati separatamente – si ottengono due diverse varietà di yogurt: il primo è riservato agli uomini; il secondo – dal sapore intenso e rinomato per il valore nutritivo – a donne e bambini», così recita il sito del presidio pokot.
Pensai a quel che avevo assaggiato io sul campo. I Pokot ricavano i contenitori del latte da zucche o radici, lavorate a fuoco. Il che dà a qualsiasi contenuto un sapore di affumicato. La fermentazione, ai miei tempi, era ottenuta con l’esposizione al sole e l’aggiunta di orina come tocco finale. La mistura di latte rancido veniva conservata con l’aggiunta di cenere (secondo Slow Food, «ricavata dall’albero Ozoroa insignis, la cenere ha potere disinfettante, migliora il gusto, dando una nota aromatica, e conferisce un caratteristico colore grigio chiaro»). I contenitori dei Pokot, opera delle donne, acquisiscono col tempo un odore ripugnante che dura per sempre. Così che mi appostai vicino al banchetto di vendita, aspettando di vedere l’apprezzamento dei clienti.
I Pokot estrassero i loro contenitori puzzolenti, li riempirono di ottimo yogurt italiano, cosparsero il tutto di una qualche cenere, allestirono lo show e rimediarono qualche soldo. Come scrisse Bertolt Brecht in Dell’infanticida Maria Farrar: «Ma voi, di grazia, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri».
Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o visita l’e-shop.