di Raffaele Masto*
*Ricorre oggi l’anniversario della morte di Raffaele Masto (28/03/2020), giornalista, africanista, scrittore, colonna della rivista Africa e voce di Radio Popolare. Per ricordarlo pubblichiamo un suo articolo scritto quasi venti anni fa, ma ancora terribilmente attuale.
Perché in Congo c’è la guerra? Il Kivu trabocca di metalli strategici: oro, uranio, rame, diamanti, coltan… Una vera e propria sciagura per la popolazione locale. Ridotta in schiavitù
Muyeye lo conoscono tutti, qui a Bukavu. La sua impresa non si ferma mai. Nel cortile coperto da una tettoia in ondolux ci lavorano una trentina di persone. Sono organizzate come in una catena di montaggio, tutti a torso nudo con la pelle rigata da grossi rivoli di sudore. Alcuni stanno seduti in terra a gambe divaricate, con davanti un mortaio di ferro all’interno del quale riducono in grani pezzi di pietra di un colore grigio quasi metallico. Picchiano con una mazza di ferro per dieci ore al giorno. Hanno le mani scorticate e sembrano seguire un ritmo quasi ipnotico: lavorano a occhi chiusi, si fermano un momento, solo per versare il contenuto sbriciolato in un contenitore che tengono al proprio fianco e prendere il pezzo di roccia successivo.
I grani di roccia vengono prelevati a intervalli regolari da altri lavoratori che li lavano in grossi setacci di legno e con occhi esperti scartano parte del contenuto. La parte buona va a finire in una montagnola dove altri addetti, muniti di pale, la introducono in bidoni di latta, che vengono caricati a forza di braccia sui camion che stazionano davanti al cancello.
Di questa pietra Muyeye ne esporta a Londra, via Ruanda, ventisette tonnellate per trentatré settimane all’anno. Un bel business, se si considera che, ovviamente, non si tratta di semplice roccia ma di coltan, preziosa e rara lega di tantalio utilizzata e ambita dalle multinazionali dell’hi-tech (fa funzionare le batterie dei cellulari e dei pc portatili). Il coltan che arriva nel cortile di Muyeye è solo una parte delle ricchezze di questa regione, il Sud Kivu, che dal punto di vista minerario è un vero e proprio scandalo geologico.

Eldorado africano
A poche decine di chilometri da Bukavu c’è la più grande riserva aurifera del mondo, una sorta di Eldorado africano. Arrivarci non è facile perché Kamituga, la città che sorge al centro di questo bacino minerario, contrariamente a ogni logica commerciale è praticamente isolata dal resto del mondo. Circa cinquecentomila abitanti non possono essere raggiunti da nessuna strada, solo da una pista di fango che fende la foresta e che nell’ultimo tratto non è praticabile nemmeno dai più robusti e moderni fuoristrada. Kamituga è sostanzialmente una città alle porte del nulla, oltre la quale c’è solo una delle più fitte e impenetrabili foreste pluviali del pianeta, eppure l’oro delle colline che la circondano trova facilmente la via per raggiungere il mondo civile, quello delle multinazionali europee e nordamericane.
È la storia che si ripete, per il Gigante Congo, un paese enormemente ricco che non ha ottenuto nulla dallo sfruttamento internazionale delle sue risorse, nemmeno le strade per raggiungere i suoi forzieri. È qui che fu estratto l’uranio per le bombe di Hiroshima e Nagasaki, e sempre dal Congo, all’inizio del secolo scorso, ai tempi di Leopoldo II del Belgio, furono ricavate le enormi quantità di caucciù per la rivoluzione che portò all’uso della gomma nei processi industriali. Tutto questo senza strade, senza infrastrutture, senza tecnologia.
Oggi a Kamituga avviene tutto come allora: l’oro viene estratto, trasportato, commercializzato, con l’uso esclusivo della forza umana di centinaia di migliaia di braccia. Gli abitanti di questa città vivono praticamente come fossero prigionieri di una grande impresa mineraria: l’unico lavoro disponibile per tutti – donne, uomini, bambini – è quello dell’estrazione dell’oro in condizioni di schiavitù.
Baby-minatori
Inizia tutto ancora prima dell’alba. Kamituga si sveglia al ritmo delle donne che, riunite in gruppi in ogni angolo della città, battono la pietra estratta nelle colline come gli operai di Muyeye. Basta guardarsi intorno per capire che negli anni gli abitanti di Kamituga hanno rosicchiato le colline circostanti, che sono come grattate dal lavorio quotidiano e metodico di eserciti di formiche e si stagliano contro il cielo mostrando le loro cicatrici. Se ci si avvicina si scopre che quelle formiche sono esseri umani, in gran parte bambini e adolescenti, e le colline assumono l’aspetto di scolapasta rovesciati, tanti sono i buchi scavati nelle loro pareti.
Per la loro corporatura esile e agile, sono soprattutto i bambini a entrarvi e a scavare con le mani nude o con rudimentali attrezzi questi fori che penetrano nella terra anche per un chilometro. È un lavoro nocivo e pericoloso, perché spesso le volte di questi cunicoli smottano, seppellendo chi si trova all’interno. È anche l’incoscienza a rendere adatti i bambini a fare questo lavoro: entrano nelle minuscole gallerie con una semplice torcia elettrica legata al capo per estrarre pochi chilogrammi di terra e pietre raccolti in umidi sacchi di tela grezza che si trascinano sulle spalle. All’esterno li attendono i loro compagni più grandi, che con occhi esperti fanno una prima setacciatura del materiale strappato alle colline, lo lavano individuando le pietre con le venature dorate più consistenti, che verranno poi inviate alle donne di Kamituga. A loro toccherà ridurle in polvere separando il metallo prezioso dagli scarti.

Business per pochi
Ma qui l’oro non viene solo strappato dal ventre delle colline. Questo bacino è talmente ricco che anche i ruscelli lo trasportano a valle, formando dei giacimenti alluvionali. Così molti cercatori si affollano intorno ai corsi d’acqua sulle cui sponde, tra la terra depositata, non è difficile individuare il luccichio della polvere d’oro. Gruppi di ragazzi deviano il corso dei ruscelli con improvvisate dighe di pietre e setacciano il fango delle sponde in modo da separare la terra dalla polvere d’oro.
Si tratta di un lavoro incessante, quotidiano, di grande pazienza e poco remunerativo. Qui l’oro non vale nulla, perché non si mangia – il lavoro dei minatori della città è pagato con pochi soldi, appena sufficienti ad acquistare il cibo per ripresentarsi l’indomani sul posto di lavoro, nel duello quotidiano con la durezza della roccia delle colline.
Questa polvere acquista il suo valore man mano che si allontana da Kamituga. Chi guadagna dall’estrazione dell’oro sono, come per il coltan di Muyeye, i mediatori. Il prezioso metallo contenuto nelle pietre viene venduto nelle Maisons d’achat d’or che punteggiano la città. Si tratta di negozietti nei quali la polvere d’oro viene pesata, pagata e trasportata verso Bukavu dove, come il coltan, prende le innumerevoli vie che la porteranno, infine, nei negozi di gioielli di tutto il mondo. Prima di arrivarvi lascerà parte del suo valore a funzionari statali, doganieri e faccendieri locali.
Per la Repubblica Democratica del Congo e per i piccoli minatori di Kamituga, ai quali non rimane quasi nulla, la storia si ripete e oltre al danno c’è anche la beffa, dato che queste ricchezze producono guerre e conflitti.
Gli interessi esterni sulle ricchezze del Kivu e la mancanza di un’intesa globale tra le potenze sul loro sfruttamento sono evidenti anche da piccoli segnali, per esempio, il fatto che il piccolo Ruanda, pur non possedendone, è diventato il principale esportatore di coltan del mondo. E il fatto che a Bukavu, sull’unica strada asfaltata della città, in uno dei pochi edifici a quattro piani, ci siano gli uffici della Banro Corporation, multinazionale nordamericana dei metalli preziosi che – seppure non ufficialmente – quasi certamente fa la parte del leone sull’accaparramento dell’oro di Kamituga. E poi c’è la Cina, che negli ultimi anni ha ottenuto appalti e contratti miliardari dal governo della lontana Kinshasa che, sulla carta, resta la capitale dello Stato congolese di cui fa parte il Kivu.