In Ruanda, il coronavirus minaccia il rimpatrio di migliaia di rifugiati (già programmato e finanziato). Secondo i dati del ministero della Salute di Kigali, i campi profughi di Mahama e Kiziba, nelle province orientale e occidentale, hanno entrambi registrato 140 casi di infezioni nell’arco di due settimane e ciò ha destato allarme e fermato le operazioni di rientro.
L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) ha imposto misure rigorose per contenere la diffusione del virus, in particolare ha limitato i movimenti rendendo così, di fatto, i rifugiati dipendenti in toto dall’agenzia.
«Sono in vigore misure di protezione, compreso il blocco parziale dei movimenti e l’uso della mascherina – ha detto alla stampa locale, Andrew Vuganeza, direttore del campo di Mahama -. Finora, le misure istituite hanno rallentato la diffusione del virus e 38 pazienti sono guariti».
«Le condizioni di vita sono cambiate da quando è scoppiata la pandemia perché le persone sono ora costrette a fare affidamento esclusivamente sull’assistenza in denaro ai rifugiati dell’Unhcr, che anche prima non era sufficiente», ha spiegato Jean-Bosco Kwibishatse, il portavoce dei rifugiati nel campo di Mahama.
Secondo l’Unhcr, dei 3,16 milioni di dollari richiesti per i bisogni dei rifugiati durante la pandemia, solo 474.000 dollari (15%) sono stati garantiti dagli Stati Uniti. È da questi finanziamenti che l’agenzia attinge i fondi per sostenere i costi dei test per il Covid-19 di ogni rifugiato che torna a casa. Oltre 15.000 rifugiati si sono iscritti per il rimpatrio in Burundi, ma probabilmente solo 8.000 rientreranno nel loro Paese entro la fine di quest’anno.