di Tommaso Meo – foto di Tommy Trenchard / Panos
Rooibos: da pianta medicinale indigena a infuso di moda in mezzo mondo. Chi ci guadagna? Il rooibos, pianta originaria delle montagne sudafricane del Cederberg, ha foglie dalle proprietà benefiche conosciute fin dall’antichità dai San, che la coltivano e consumano anche per scopi terapeutici. Ora che la sua fama è mondiale e le vendite sono esplose, gli indigeni rivendicano la loro parte.
In cima a un remoto altopiano delle montagne del Cederberg del Sudafrica, una mezza dozzina di uomini khoisan camminano a passo spedito lungo file di arbusti alti fino alle cosce. Ogni pochi metri si fermano e si chinano per raccogliere bracciate di steli sottili, ciascuno ricoperto di foglie aghiformi. Raccolgono il rooibos, pianta originaria della regione che da generazioni è utilizzata dai Khoisan (conosciuti anche come Boscimani) sia come tè sia per una serie di scopi medicinali. Oggi, l’infuso dolce e terroso, ricco di antiossidanti e naturalmente privo di caffeina, è un pilastro dei menù dei bar alla moda da New York a Tokyo. La sua crescente popolarità è alimentata non solo dal suo sapore caratteristico ma anche dal suo presunto (ma non dimostrato) beneficio per la salute.
Le esportazioni sudafricane sono salite alle stelle: da appena 500 tonnellate nel 1996 a quasi 9.500 oggi. Abbastanza per riempire 3,6 miliardi di bustine di tè. Inoltre il rooibos è sempre più utilizzato come ingrediente in alimenti salutisti e prodotti cosmetici.
Successo mondiale
Da un roccioso e aspro altopiano del Sudafrica più profondo ai locali healthy e alla moda di mezzo mondo, ne ha fatta di strada il rooibos. Erroneamente chiamato “tè rosso sudafricano”, questo infuso non proviene dalla Camellia sinensis, la pianta dalle cui foglie si produce la più nota bevanda, è invece frutto della raccolta e della fermentazione delle foglie, simili ad aghi di pino, di un arbusto, l’Aspalathus linearis, che cresce spontaneamente solo nella regione del Cederberg, nella provincia del Capo Occidentale. Rooibos significa proprio “arbusto rosso” in lingua afrikaans, dal colore bordeaux che gli aghi di questa pianta assumono dopo l’essiccazione, lo stesso che caratterizza anche il tradizionale infuso. Tuttavia negli anni Novanta è stato sviluppato anche un rooibos verde: una variante non ossidata dello stesso estratto, più impegnativa da produrre e quindi più costosa.
La grande popolarità recente di questa bevanda come alternativa al tè e alle tisane tradizionali è dimostrata dai numeri fatti registrare dalle esportazioni sudafricane, che oggi raggiungono circa 50 Paesi nel mondo. Il rooibos è così arrivato nei bar e sugli scaffali dei supermercati anche in Italia, grazie a un gusto intenso, con note di legno e vaniglia, e forte della sua fama di infuso salutare: oltre a non contenere teina o caffeina, è ricco di antiossidanti, tra cui la quercetina e l’aspalatina, e avrebbe anche qualità calmanti e antistress.
Toccasana naturale
Conoscendone le proprietà benefiche, i San sudafricani – impropriamente detti Boscimani – lo coltivano e consumano da secoli anche per scopi terapeutici. Per curare il mal di denti dei bambini, per esempio, o come rimedio a malattie della pelle quali l’eczema, per alleviare i crampi allo stomaco o per ridurre il livello di colesterolo e zuccheri in circolo, ma anche come infiammatorio o contro la disidratazione. La pianta da cui il rooibos è tratto fu scoperta, dal punto di vista europeo, nel 1772 quando un botanico svedese, Carl Thunberg, visitò l’area e iniziò a studiare l’arbusto. La coltivazione su scala più ampia e la commercializzazione di questo “infuso miracoloso” partirono solo all’inizio del Novecento grazie all’immigrato russo Benjamin Ginsberg, e da allora fu appannaggio quasi esclusivo dei colonizzatori bianchi – olandesi, britannici e russi su tutti – e dei loro discendenti. La coltivazione del rooibos finì infatti per seguire le linee di demarcazione etnica e le ingiustizie prodotte dal regime di apartheid in Sudafrica.
Con la produzione a livello industriale, a partire dagli anni Trenta, Khoi-khoi e San diventarono economicamente, politicamente e geograficamente emarginati, perdendo l’accesso a molte terre dove si coltivava la pianta. A loro non rimanevano, anche delle vendite, che le briciole.
Diritti riconosciuti
Nonostante questo, nell’ultimo secolo la tradizionale coltivazione dell’arbusto rosso e i saperi legati ai suoi utilizzi sono stati tramandati di generazione in generazione dai popoli san. Il rooibos è tuttora l’unica opzione economica, per esempio, per la comunità dell’isolato villaggio di Wupperthal, nel montuoso Cederberg, dove il tempo pare essersi fermato da quando l’avamposto fu fondato nel 1830 da due missionari tedeschi. La storia, anche a qui, da pochi anni è però parzialmente cambiata, e in meglio. Nel 2010, il South African San Council, una delle organizzazioni che rappresentano i primi popoli indigeni d’Africa, ha iniziato a rivendicare i diritti dei propri membri quali detentori primari della conoscenza del rooibos, in linea con il Nagoya Protocol, un accordo firmato lo stesso anno ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sulla biodiversità. Alle loro richieste si è unito, nel 2013, il Consiglio Nazionale Khoisan, che porta avanti anche le istanze dei Khoi, l’altro popolo locale che coltiva il rooibos e ne tramanda la conoscenza.
Dopo nove anni di negoziati, nel novembre del 2019 è stato firmato il Rooibos Traditional Knowledge Benefit-Sharing Agreement, un accordo che riconosce il valore della “conoscenza tradizionale” ai coltivatori originari e corrisponde loro un pagamento annuale che deriva da una tassa dell’1,5% sulla vendita di tutto il rooibos tagliato ed essiccato. Il primo versamento da parte del governo, 700.000 dollari, è finalmente arrivato nel 2022 su due conti fiduciari separati per i San e i Khoi. Questi soldi, più un riconoscimento per il contributo nella crescita di questa industria che una reale compensazione, saranno reinvestiti nella comunità, in particolare nell’educazione, dicono i leader locali. Con questo denaro sarà possibile costruire nuove infrastrutture, ma soprattutto garantire una migliore istruzione ai giovani dei villaggi contadini.
Futuro incerto
Un altro riconoscimento per l’infuso era arrivato già nel 2014 con l’assegnazione dello status di indicatore geografico. Questo significa che il “tè” può essere chiamato rooibos solo se è stato coltivato nella regione del Cederberg. Nel 2021 anche l’Unione Europea ha concesso al rooibos sudafricano la Denominazione di Origine Protetta (Dop), un’etichetta che garantisce la qualità e tutela il nome di un prodotto enogastronomico che provenga da una determinata regione e segua un particolare processo tradizionale. Il rooibos è l’unico prodotto africano a essere stato aggiunto a una lista che comprende, tra gli altri, il Parmigiano Reggiano e lo Champagne.
Quella del rooibos, conosciuto ora a livello internazionale, è un’industria locale da 300 milioni di rand all’anno (circa 15 milioni di euro), che impiega 5.000 persone e produce 15.000 tonnellate l’anno. Rimangono però alcuni problemi per le comunità che vivono di rooibos. Le terre a rooibos lasciate a disposizione degli indigeni sono tuttora una risibile percentuale del totale. Nel 2017, circa 350 agricoltori commerciali producevano il 98% del raccolto, mentre meno del 7% della terra su cui cresceva il rooibos era controllato da agricoltori originari, secondo un paper pubblicato sul South African Journal of Botany quell’anno. Tuttora i 77 agricoltori della Wupperthal Original Rooibos Cooperative affittano i loro appezzamenti dalla Chiesa della Moravia, proprietaria del villaggio stesso e di circa 36.000 ettari di terreno circostante.
Tra gli altri motivi di preoccupazione c’è il cambiamento climatico, che mette in difficoltà la produzione anche nell’isolato Cederberg. Normalmente l’area sopporta condizioni meteorologiche estreme, con temperature che scendono sotto lo zero in inverno e raggiungono i 48 °C in estate. Negli ultimi anni si sono verificate però temperature particolarmente elevate e mutamenti nell’andamento delle precipitazioni, con estati più calde e inverni più secchi, che hanno causato siccità e incendi. Tempeste sempre più violente stanno danneggiando anche le infrastrutture e interferendo con i raccolti autunnali.
Questo articolo è uscito sul numero 3/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.