Di loro si sa poco. Dei laici si sa ancora meno. D’altra parte i media occidentali si sono accorti dell’omicidio delle quattro Missionarie della Carità e dei loro collaboratori, avvenuto venerdì in Yemen, solo dopo che Papa Francesco ne ha parlato all’Angelus di domenica indicandole come «martiri del giorno d’oggi». Prima di allora (e in parte anche dopo) il silenzio è regnato sovrano.
Suor Annselna, indiana, suor Marguerite, ruandese, suor Reginette, ruandese, e suor Judith, keniana, lavoravano in una casa che accoglieva vecchi e disabili. A coordinare il loro lavoro, suor Sally, la superiora, l’unica che è scampata al massacro. Venerdì, come ogni giorno, avevano indossato il grembiule blu e stavano servendo la colazione ai loro ospiti con quello spirito di umiltà che caratterizza la congregazione religiosa fondata da Madre Teresa di Calcutta. Intorno alle 8,30, un gruppo di persone hanno fatto irruzione nel loro compound e, dopo aver ucciso il guardiano e tutti gli impiegati, hanno raggiunto le suore le hanno sfigurate e poi le hanno uccise. Gli assalitori hanno infine sequestrato padre Tom Uzhunnalil, un sacerdote salesiano che viveva nella struttura (del quale non si sa ancora nulla)
Le religiose sapevano che la situazione in Yemen era difficile. Il Paese è in preda a una feroce guerra che oppone una coalizione guidata dall’Arabia Saudita alla minoranza houti di fede islamica, ma sciita (e sostenuta dall’Iran). Un conflitto che ha fatto più di seimila morti e migliaia di profughi. Ad Aden, la città in cui sono state uccise le suore, interi quartieri sono sotto il controllo di Isis e al Qaeda (che ha però negato la propria responsabilità nell’attentato). Le missionarie sapevano quindi che rimanere lì era un rischio. Ma sia le suore uccise sia il sacerdote salesiano rapito avevano deciso di restare. Avevano detto: «Noi vogliamo stare vicini ai poveri e agli ultimi e restiamo qui. È la nostra vocazione». Hanno pagato con la vita questo coraggio, fondato unicamente sulla fede e sullo spirito di servizio. Con loro sono morti undici laici dei quali almeno cinque sarebbero (non è certo) africani.
Una parte della biografia di suor Annselna è stata ricostruita dal «Telegraph India». Al secolo Cecilia Minj, era l’ultima di sette figli di una famiglia contadina di Gumla a circa 200 km da Ranchi, in India ed era entrata nelle Missionarie a 20 anni. Prima di arrivare ad Aden era stata a Calcutta, negli Stati Uniti, in Iraq, a Roma, in Giordania. A casa, per quanto se ne sa, era tornata l’ultima volta nell’estate del 2010 e aveva aiutato i poveri anche lì.
Sulle suore africane e sui loro collaboratori africani le notizie sono scarsissime. Secondo quanto riportato da «The New Times», periodico ruandese, suor Marguerite veniva dalla parrocchia di Kivumu nella diocesi di Kabgayi e suor Reginette era della parrocchia di Janja nella diocesi di Ruhengeri. Mons. Smaragde Mbonyintege, vescovo della diocesi di Kabgayi ha detto che entrambe verranno probabilmente sepolte in Yemen dove hanno lavorato a fianco degli ultimi. «Ci hanno offerto un esempio di generosità servendo in un Paese instabile – ha detto il monsignore -. Questo spirito le ha portate a rimanere lì per fare il bene degli altri anche se avrebbero potuto andarsene». Di suor Judith, la religiosa keniana, si sa solo che aveva appena compiuto 41 anni e lavorava da qualche tempo in Yemen. Nulla si è venuto a sapere invece dei cinque (ma forse sono di più) lavoratori etiopi che sono morti con le religiose nell’ospizio. Probabilmente erano cristiani considerato che gli assassini, prima di sparare, hanno diviso i musulmani dai cristiani e hanno ucciso solo questi ultimi.
Attraverso un comunicato, la congregazione fondata da Madre Teresa ha fatto sapere che «continuerà a servire i poveri e i bisognosi in Yemen. Madre Teresa è sempre stata negli angoli più remoti del mondo, indipendentemente dalla situazione locale». In questo, incoraggiati anche dalla dimostrazione di solidarietà della gente del quartiere di Aden dove si trovava la comunità di suore. In molti sono scesi in strada per manifestare l’amicizia e la vicinanza alle Missionarie della Carità e per condannare la violenza bruta degli omicidi.