Un anno fa, il 2 ottobre 2023, Angelo Ferrari, giornalista e scrittore, colonna della nostra rivista, è scomparso all’età di 63 anni, a seguito di una lunga malattia. Per più di trent’anni ha viaggiato per il continente africano raccontandone le tragedie e i principali conflitti, ma anche le storie di riscatto e le speranze dei suoi popoli. Per ricordarlo pubblichiamo oggi degli estratti del suo ultimo libro, Non so come andrà a finire (OGzero, 2023).
Capitolo 58 “Il mio matrimonio africano“
Quella mattina di sabato, il 12 ottobre, ero un po’ agitato, come del resto anche Gabriela. Un giorno importante, il nostro matrimonio tradizionale. Non sapevamo bene cosa sarebbe successo. Per noi doveva essere una festa da celebrare con gli amici e le ragazze di Grand-Bassam. Tutto era pronto. Ma bisognava aspettare che spiovesse. La giornata era iniziata con una pioggia battente, che non sembrava finire mai. Così l’ora del matrimonio, le dieci, è slittata finché il tempo non è diventato clemente. Arrivato mezzogiorno, siamo partiti per Moossou, il luogo scelto per celebrare la cerimonia, non molto distante dalla casa di Alessandro.
Appena arrivati, io e Gabriela siamo stati subito separati. Come da tradizione, lo sposo non poteva vedere la sposa. Io sono stato messo in una stanza dove le sœurs de la mariée hanno dato inizio alla vestizione. Una tortura, soprattutto perché mi hanno costretto a infilarmi ai piedi delle infradito, eleganti, ma che io non ho mai sopportato. Poi mi hanno portato nella corte, di fronte alle rispettive famiglie. Sì, tutto doveva seguire la tradizione. I protagonisti, o gli attori, erano proprio compresi nel loro ruolo, niente da dire. A me tutto sembrava molto strano. Intanto mia moglie era sparita. A quel punto è cominciato il rito. Mi sono unito alla mia famiglia, quella di mia moglie era di fronte: tutti sotto un gazebo. Sono cominciate le presentazioni, la spiegazione del perché volevo prendere in moglie proprio la loro di figlia. Insomma volevano accertarsi che le intenzioni fossero genuine.
Tutto si stava svolgendo in lingua francese, finché un membro della mia famiglia è intervenuto obiettando: era un matrimonio nella tradizione abouré, quindi bisognava parlare in quella lingua. Dunque, loro parlavano nel loro dialetto, qualcuno dietro di me traduceva in francese e io, nella mia testa, traducevo in italiano. Un miscuglio di idiomi che si sommava alla confusione del momento. Tutti dovevano dire la loro. Parole veloci che rimbalzavano da una parte all’altra, da una famiglia all’altra. Talvolta incomprensibili. Sta di fatto che la scenetta è durata un po’. Intanto di mia moglie non c’era ancora traccia. Gli animi si sono calmati quando la famiglia della mia futura sposa ha dato il consenso. Ci sono voluti una trentina di minuti
di botta e risposta. Ma il più sembrava fatto. E invece no. Era giunto il momento della dote. Non ci potevo credere. Un momento solenne, carico di significati che, però, a me sfuggivano. Su un pagne disteso a terra venivano portati i «doni»: bottiglie di gin, casse di vino rosso, vino di palma, un sacco di sale marino, alcuni pagne, una somma di denaro simbolica, una busta per il padre e una per la madre. Fortunatamente nessun animale vivo.
Mi è capitato di partecipare a matrimoni tradizionali in cui comparivano, come dal nulla, capre, galline, pecore. La famiglia della sposa controllava ogni cosa. Tra me e me dicevo: è solo una rappresentazione. Invece facevano sul serio, si animavano. E poi è successo l’imprevedibile. Secondo la famiglia della futura sposa mancava qualcosa, e cioè una bottiglia di Campari. Non ci potevo credere, pensavo scherzassero. Intanto uno zio della mia famiglia spiegava all’altra che un ladro aveva rubato la bottiglia. Dall’altra parte ribattevano che il matrimonio sarebbe saltato: ci voleva la bottiglia di Campari. Così non si poteva andare avanti. Io chiedevo spiegazioni e la risposta sempre quella: «Senza bottiglia il matrimonio salta». Non era affatto uno scherzo. Volevo un matrimonio tradizionale? E allora si faceva sul serio. Il tutto è durato una buona ventina di minuti, finché è comparsa una bottiglia di Campari che prontamente Marthe era andata a comprare. A quel punto mio zio, con grande enfasi, ha annunciato che il ladro era stato acciuffato e la bottiglia recuperata. Intanto le donne preparavano il pranzo in enormi pentoloni. Insomma, tutto intorno il trambusto era enorme.
La famiglia della sposa, soddisfatta della dote, adesso doveva essere certa che il mio amore fosse vero e sincero. Quindi dovevo essere sottoposto a un’altra prova. Dovevo riconoscere mia moglie. Niente di più facile. Invece no. Mi sono state presentate in sequenza tre donne, coperte da cima a fondo, e io solo guardando quell’involucro informe dovevo dire se era mia moglie oppure no. Non potevo sbagliarmi. Se non l’avessi riconosciuta avrei dovuto pagare una penale che poteva raggiungere i 150 euro. E così, una per una, sono comparse queste donne. E lì si è scatenato il putiferio. La madre di lei che mi poneva le domande, un’infinità di persone dietro di me che dava suggerimenti concitati; a un mio no, lei con voce tonante mi chiedeva se ero sicuro, al mio sì le domande erano ancora più incalzanti. Alla fine, non ho dovuto pagare nessuna penale.
Finalmente mia moglie era comparsa. Una volta riuniti, prima di tutto abbiamo ricevuto dei nomi abouré: io sono diventato «Koffi» e Gabriela «Aya». A quel punto si è potuta svolgere la cerimonia vera e propria: siamo stati uniti in matrimonio. Il rito non è stato molto lungo: un po’ di gin versato per terra, qualche parola incomprensibile, del vino di palma da bere (orribile), ed eravamo marito e moglie.
Si poteva dare inizio al pranzo, non senza prima un cambio d’abito, come da tradizione. Sembravamo il re e la regina, corona e collane d’oro, bracciali e un diadema per lei – una cosa con dei peli (forse dalla coda di qualche animale) all’estremità, che simboleggiava lo scettro. Così agghindati abbiamo passato in rassegna gli invitati per poi accomodarci su dei troni al nostro tavolo. Finalmente il pranzo. Binta si dava un gran daffare per riempire i piatti e portarli al tavolo. Quando tutti erano stati serviti si è accorta di non avere un piatto per sé. Il suo carattere l’ha portata subito a inalberarsi: «Ma come? Ho servito tutti e io rimango senza?». Ci ha messo un attimo a infiammarsi, e le fiamme bisogna spegnerle sul nascere. Marthe ha capito tutto: ha tolto un piatto dal nostro tavolo l’ha messo nelle mani di Binta. Sul suo volto è tornato il sorriso. E così tutti hanno mangiato e bevuto a sazietà.
Infine si è svolta la cerimonia dei doni. Tutti in fila indiana. Forse è stato il momento più commovente della giornata. Chi ha regalato un pagne, chi una statuetta, tutti hanno offerto qualcosa secondo le proprie possibilità. Una ragazza, Awa, mi ha messo tra le mani una banconota da mille franchi Cfa, circa 1,5 euro: molto, per lei. Un gesto che ci ha toccato il cuore, non potevo che piangere. Terminata la consegna dei regali, dopo un nuovo cambio d’abito, è stato dato l’avvio alle danze, alla festa vera e propria. Finalmente si è dato sfogo alla gioia di quella giornata, e ho potuto togliermi dai piedi quelle fastidiose infradito. E così Koffi e Aya sono diventati parte della comunità. Non solo. La nostra foto è finita sul notiziario “BassamNews” con la didascalia: «Per la prima volta una coppia di bianchi si sposa con il rito abouré». Una prima assoluta anche per la Costa d’Avorio.