di Claudia Volonterio
Il rituale del gukuna tra pregiudizi, risvolti sociali e ricerca del piacere femminile. Il gukuna consiste in un massaggio reciproco femminile che produce l’allungamento delle labbra della vagina. L’Oms lo considera una pratica di mutilazione genitale. Secondo l’antropologa Michela Fusaschi, si tratta di un rito di passaggio, non cruento, che cimenta la coesione femminile e promuove l’appagamento sessuale delle donne
Con il termine gukuna (“prendersi cura” in kinyarwanda)si indica un rituale che coinvolge la sfera intima femminile, praticato e diffuso nella regione dei Grandi Laghi, in particolar modo in Ruanda. «Si tratta di un massaggio reciproco effettuato fra donne sui genitali esterni che produce un allungamento delle piccole labbra», spiega Michela Fusaschi, antropologa dell’Università di Roma Tre, che nel Paese delle mille colline ha condotto un’interessante indagine sul gukuna. «Questa pratica – fa notare la ricercatrice – produce una modificazione corporea portatrice di significati e conseguenze, fisiche e sociali, che non vanno giudicate, ma studiate e comprese: è fondamentale non proiettare le nostre categorie occidentali su questi temi. Soprattutto, sarebbe bene evitare di giudicare prima di conoscere».
Pregiudizi moralistici
Invece su questi rituali, radicati nella storia della regione, ha pesato il giudizio e il moralismo dell’epoca coloniale, «che ha tentato in tutti i modi di eliminarli o negativizzarli, secondo una presunta concezione di ordine e civilizzazione. Questa retorica è stata portata avanti anche dalle ong di derivazione cattolica». Secondo Fusaschi, «attraverso il gukuna si realizza la riscoperta e la reinterpretazione di radici culturali locali messe in discussione dal passato coloniale, nel quale esse si sono rispecchiate come primitivismi barbari». Permane però uno scontro ideologico tra l’antropologia che studia le modificazioni come parte di un contesto culturale, responsabili di cambiamenti simbolici e fisici ma che non mutilano il corpo, e l’Organizzazione mondiale della sanità, che invece inserisce il gukuna tra le forme meno comuni di mutilazioni genitali femminili, poiché produrrebbe un allungamento degli organi genitali per ragioni non terapeutiche.
Privilegio femminile
Ieri come oggi il gukuna viene svolto per preparare la giovane donna alla futura vita coniugale: vi sono sottoposte migliaia di ragazze ruandesi in età prematrimoniale. «Da un punto di vista sociale, il gukuna è concepito come un rito di passaggio – argomenta l’antropologa –. Questo massaggio predispone il corpo femminile alla vita adulta e diventa così una prerogativa della donna che, con un corpo “adatto”, può non solo partecipare alla vita della società, ma sarà in grado di raggiungere l’eiaculazione femminile, chiamata kunyara, e di provare un piacere più intenso durante l’atto sessuale».
In quanto pratica privata delle donne – momento di intima condivisione e di complicità assoluta femminile –, questo rito è un’occasione di limitazione del potere maschile, ancor più se lo consideriamo nel contesto di una società patriarcale come quella ruandese. Secondo Michela Fusaschi, il gukuna promuoverebbe una sorta di liberazione sessuale. «Le donne hanno modo di confrontarsi, imparare ad essere sé stesse, risolvere dubbi e perplessità. Il corpo diventa uno strumento per formare la propria identità sociale».
L’acqua sacra
Il piacere femminile in Ruanda non è affatto sottovalutato e mortificato come in altre culture, anzi. «L’eiaculazione femminile è un avvenimento che può davvero rafforzare la relazione», confermano a questo proposito voci di uomini e donne che si sono raccontati nel documentario del regista Olivier Jourdain, L’Eau sacrée (“acqua sacra”: il liquido prodotto dall’orgasmo femminile), dove si parla apertamente del gukuna. Il film mette in luce la relazione simbolica che persiste nella cultura ruandese tra il corpo della donna e la natura. Riprese di laghi e fiumi rimandano alla connessione con “l’acqua sacra” e la sottolineano. A ciò si aggiunge il mito della creazione del Lago Kivu: si racconta che a partire dall’eiaculazione di una regina ruandese si sia generato un fiume, che è poi confluito nel grande lago.
Il regista, per calarsi al meglio nell’universo della sessualità femminile, si è affidato a Vestine Dusabe, speaker radiofonica di trasmissioni notturne. La quale nel documentario esprime senza remore la bellezza di essere donna, che include il provare piacere sessuale e, nel migliore dei casi, raggiungere l’orgasmo. Emerge una sessualità ruandese libera, paritaria, dove non c’è spazio per i tabù. La produzione di “molta acqua” è così importante e misteriosa da essere definita “sacra”. E, soprattutto: non ci sarebbe “acqua sacra” senza gukuna.
Ma per nulla secondario è il compito dell’uomo. Come fa notare la giornalista Antonella Sinopoli: «L’uomo ha una sorta di dovere/compito di portare la donna al massimo piacere che in certi casi, dopo la prima notte, deve essere provato mostrando un panno che racchiude l’eau sacrée. Altro che lenzuola con il rosso della verginità!». Conclude Michela Fusaschi: «Ad oggi, il gukuna, nonostante le ineguaglianze di potere, si conferma come un garante della coppia, ma anche dei rapporti fuori dalla stessa. Un’ecologia che ha alla base uno scambio, una dialettica tra le parti, in cui viene meno ogni rapporto di subalternità. Le donne sono e rimangono le assolute protagoniste».
Questo articolo è uscito sul numero 4/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’eshop.