di Annamaria Gallone
Oggi vorrei tornare a parlarvi in modo più diffuso del regista maliano Souleymane Cissé, anche perché potrete leggere del suo più grande capolavoro, Yellen (La Luce), sul calendario VISIONI D’AFRICA 2024 del CUAMM, Medici per l’Africa, interamente dedicato alla cinematografia africana.
Considerato uno dei decani della settima arte del continente, nasce a Bamako nel 1940 da una modesta famiglia mussulmana, ma trascorre l’infanzia a Dakar, in Senegal, allora colonia vicina dell’impero francese dell’Africa occidentale, dove suo padre si è trasferito per lavoro. È appassionato di cinema fin dall’infanzia: dall’età di 7 anni è un assiduo frequentatore di cinema insieme ai suoi fratelli maggiori e ai loro amici. Frequenta la scuola secondaria a Dakar ed è lì che sviluppa la passione per il cinema, dopo aver visto un documentario sull’arresto di Patrice Lumumba.
Torna in patria nel 1960, quando la Federazione del Mali si scioglie e il suo Paese ottiene l’indipendenza. Si unisce ai movimenti giovanili e inizia a proiettare film alla Maison des Jeunes di Bamako, che poi commenta al pubblico.
Ottiene una borsa di studio per frequentare un corso da proiezionista e poi studia cinema all’Istituto di Studi Superiori di Cinematografia di Mosca sotto la supervisione del grande regista sovietico Mark Donskoy (con cui il leggendario cineasta senegalese Ousmane Sembène aveva studiato qualche anno prima). Si diploma nel 1969. Nel 1970, al suo ritorno in Mali, è stato assunto come cameraman-reporter presso il dipartimento cinematografico del Ministero dell’Informazione, il che gli da l’opportunità di viaggiare in lungo e in largo per il Mali con una cinepresa a mano per tre anni e di realizzare diversi documentari.
Souleymane Cissé realizzaa nel 1971 il suo primo mediometraggio, Cinq jours d’une vie (cinque giorni di una vita). Il film racconta la storia di un giovane che abbandona la scuola coranica e vaga per le strade, vivendo di piccoli furti. Il film viene premiato al Festival di Cartagine.
Nel 1975 realizza il suo primo lungometraggio, in bambara, Den Muso (La ragazza), che racconta di una giovane ragazza muta che viene violentata da un disoccupato. Incinta, viene scacciata dalla famiglia e dal padre del bambino, che si rifiuta di riconoscerla. Souleymane Cissé ha spiegato il suo approccio: “Volevo esporre il caso delle tante ragazze madri che vengono rifiutate ovunque. Volevo che la mia eroina muta simboleggiasse l’ovvio: nel nostro Paese le donne non hanno il diritto di parlare”. Non solo il film è stato vietato dal Ministro della Cultura del Mali, ma Souleymane Cissé è stato arrestato e imprigionato per aver accettato la collaborazione francese. Il film rimase vietato per tre anni e fu distribuito solo nel 1978.
Funzionario pubblico, Souleymane Cissé si congeda nel 1977 per dedicarsi completamente al cinema e crea la casa di produzione Les Films Cissé (Sisé Filimu).
Nel 1978 esce il film Baara (Lavoro), che vince l’Étalon de Yennenga al FESPACO (Festival Panafricano del Cinema e della Televisione) di Ouagadougou dello stesso anno. Il film racconta la storia di un giovane ingegnere che, disgustato dall’atteggiamento del suo direttore generale, decide di organizzare un incontro con gli operai per far valere i loro diritti. Ma il suo capo lo fa immediatamente rapire e poi assassinare.
Segue nel 1982 Finyè (Il vento). Si tratta della cronaca della rivolta degli studenti maliani contro il regime militare. Alla sua uscita, il film vince numerosi premi: Étalon de Yennenga al FESPACO di Ouagadougou nel 1983, Tanit d’Or al Festival di Cartagine. Il film è stato anche selezionato per il Festival di Cannes del 1982 (il regista è stato membro della giuria l’anno successivo).
Nell’arco di 4 anni, tra il 1984 e il 1987, ha girato Yeelen (Luce), un film di iniziazione sul doloroso percorso che un bambino compie per diventare adulto.
La trama di Yeelen (Luce)
In un’Africa primordiale, padre e figlio di etnia bambara sono maestri dell’arte della magia. Nianankoro vorrebbe farne parte a tutti, ma lo costringe a fuggire la reazione violenta del padre, Soma, che rappresenta la tradizione magico-religiosa più ottusa, per cui il sapere divino del Komo deve restare prerogativa degli iniziati. Inizia così un lungo e tormentato viaggio iniziatico, che prosegue con la giovane peul Attou, incinta di lui. Incontra infine il padre e lo sfida in un duello di arti magiche per entrambi mortale, che si conclude in un’abbagliante esplosione di luce. Un bambino scopre nella sabbia due uova di struzzo, simbolo della vita, e le porge ad Attou. Insieme, si incamminano. È la vittoria del giorno e della rinascita, la conoscenza che guida la vita. Un film “abbagliante”, poiché protagonista è Yeelen, la luce, rappresentata non solo come elemento naturale, ma come forza che risolve lo scontro generazionale. Un’opera estremamente originale e sorprendente che contamina elementi del racconto orale con apporti ‘occidentali’ di genere, dal western alla fantascienza. Un viaggio iniziatico attraverso il suggestivo paesaggio Dogon.
Con questo film ottiene il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes nel 1987. È il primo regista africano a vincere un premio a Cannes per un lungometraggio. È stato il primo film africano a ricevere un tale successo di critica in un festival rinomato per la sua celebrazione di nuove direzioni pionieristiche nella cinematografia. Yeelen è stato salutato dalla critica non solo come un momento di svolta per il cinema africano sulla scena internazionale, ma anche come l’incarnazione di una nuova forma di pratica cinematografica africana radicata nelle tradizioni narrative orali e nella spiritualità dell’Africa occidentale ambientato in un’epoca imprecisata precoloniale. Il film racconta una storia mitica e altamente simbolica che contrappone un figlio ribelle al padre tirannico: un’opera estremamente originale e sorprendente che contamina elementi del racconto orale con apporti ‘occidentali’ di genere, dal western alla fantascienza. viaggio iniziatico attraverso il suggestivo paesaggio Dogon. Un film “abbagliante”, poiché protagonista è Yeelen, la luce, rappresentata non solo come elemento naturale, ma come forza che risolve lo scontro generazionale.
Realizza poi nel 1995 Waati (Il tempo), che racconta la storia di Nandi, una bambina nera del Sudafrica ai tempi dell’Apartheid, che fugge dal suo Paese in Costa d’Avorio, Mali e Namibia, prima di tornare nel suo Paese d’origine dopo la fine del regime.
Nel 2009, il regista realizza Min yé (Chi sei tu?), un film sulla poligamia. Il film, interpretato dalla presentatrice di Africable Sokona Gakou e da Assane Kouyaté, è stato presentato al Festival di Cannes 2009. A proposito della poligamia, ricordo quando nel ’90 andai a Bamako per invitarlo al Festival del Cinema africano di Milano, e non lo trovavo perché la prima moglie ci diceva che era a casa della moglie più giovane e questa mi rimbalzava a casa della seconda moglie… Infine O Ka (La nostra casa) del 2015 tratta i problemi della terra che affliggono il Mali, attraverso gli occhi di quattro donne della sua famiglia che sono state sfrattate dalle loro case.
La fama di Cissé è tuttavia legata soprattutto alla qualità dei quattro film realizzati durante il periodo più prolifico della sua carriera, tra il 1975 e il 1987, culminato con l’uscita di Yeelen (Luce). Questo nuovo stile cinematografico si opponeva al realismo sociale che molti critici consideravano la caratteristica principale del cinema di lingua francese in Africa occidentale negli anni ’60 e ’70. I film di Sembène sono generalmente citati come gli esempi più riusciti di questo tipo di lavoro. Lo stesso Cissé è stato lodato per il realismo sociale politicamente impegnato dei suoi primi film. Con Yeelen, viene ora dipinto da molti critici come un regista che ha compiuto la “transizione” dal realismo sociale a una forma di cinema più simbolica, più mistica e quindi più “autenticamente” africana. Il regista espone le sue convinzioni artistiche nel magnifico documentario del 1991 del regista cambogiano Rithy Panh, Souleymane Cissé. Egli descrive l’ispirazione dei suoi film come un processo quasi onirico e visionario, ma saldamente radicato nella realtà. In Finyé, sono l’acqua e il vento a svolgere questo ruolo simbolico in quello che rimane un film altamente politico di denuncia della dittatura militare.
Dal 1997 Souleymane Cissé è presidente dell’Union des Créateurs et Entrepreneurs du Cinéma et de l’Audiovisuel de l’Afrique de l’Ouest (UCECAO). Souleymane Cissé è stato nominato Commendatore dell’Ordine Nazionale del Mali dal Presidente della Repubblica, Amadou Toumani Touré, il 1° gennaio 2006. È stato inoltre insignito del grado di Commandeur des Arts et Lettres de la République Française.
Nel 2022 la figlia Fatou Cissé ha realizzato un documentario su di lui intitolato Hommage d’une fille à son père: Souleymane Cissé presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes.
Nel 2023, all’ultimo Festival di Cannes, è stato insignito del premio La carrose d’or, dall’Associazione dei registi francesi che premia un regista per le qualità pionieristiche del suo lavoro e l’audacia della sua visione cinematografica. Tra i precedenti vincitori figurano famosi registi occidentali come Martin Scorcese e Jane Campion e a Ousmane Sembène. Si tratta di un premio importante e meritato. La creatività di Cissé può essere diminuita negli ultimi anni, ma il premio della Carrosse d’Or celebra giustamente un regista che, per gran parte degli anni ’70 e ’80, è stato uno degli cineasti più inventivi, non solo in Africa, ma nel mondo.