di Marco Trovato
L’elezione di Donald Trump come nuovo presidente apre diversi interrogativi sui rapporti tra Stati Uniti e Africa. Durante il suo primo mandato, Trump ha ridotto gli investimenti nel continente, favorendo una politica di “America First” e mantenuto un approccio di disinteresse e retorica polarizzante.
L’elezione di Donald Trump come nuovo presidente degli Stati Uniti apre una fase di incertezza e interrogativi sui futuri rapporti tra gli Stati Uniti e il continente africano. Durante il suo primo mandato, Trump aveva manifestato un approccio controverso verso l’Africa, contraddistinto da una diminuzione di investimenti e una retorica spesso polarizzante: in una dichiarazione arrivò a definire i paesi africani – ma anche Haiti e Salvador – “shithole countries “, “Paesi di m.”
Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca il tycoon non aveva trovato il tempo per visitare il continente, manifestando un certo disinteresse. Sensazione confermata durante la recente campagna elettorale, condotta in gran parte su questioni interne (lotta all’immigrazione, alla disoccupazione e all’inflazione), finalizzata a conquistare il ceto medio statunitense deluso dall’amministrazione Biden. Scelta, peraltro, che ha pagato in termini di voti.
Nel corso del primo mandato, Trump aveva ridotto l’impegno economico e diplomatico degli Stati Uniti in Africa, favorendo una politica di “America First” che aveva portato a tagli consistenti negli aiuti esteri e a una minore attenzione verso le questioni di sviluppo e sanità pubblica nel continente. D’altra parte, l’amministrazione aveva cercato di contrastare la crescente influenza della Cina attraverso iniziative come la “Prosper Africa” — un programma volto a incentivare il commercio e l’investimento bilaterale. Tuttavia, molti osservatori avevano considerato tali azioni come parziali e insufficienti.
I rapporti tra USA e Africa peraltro non hanno registrato una svolta significativa con l’amministrazione di Joe Biden – altro presidente americano che non ha visitato il continente, malgrado avesse promesso e programmato un viaggio, poi rimandato a data da definire. Certo in questi ultimi 4 anni sono stati siglati un numero significativo di accordi commerciali e il volume degli scambi tra Stati Uniti e Africa è cresciuto a 60 miliardi di dollari, ma si tratta di un terzo del valore degli scambi tra Pechino e il continente. E sul piano della sicurezza, gli Stati Uniti mantengono un contingente significativo – più di 5000 soldati- concentrato in gran parte nella base strategica di Gibuti (fondamentale per il controllo della rotte marittime nel Mar Rosso e per il contrasto alla minaccia jihadista), tuttavia i marines hanno dovuto fare le valigie in Paesi chiavi del Sahel, come il Niger, oggi governati da regimi militari golpisti che hanno manifestato atteggiamenti antioccidentali e hanno aperto le porte alla Russia di Putin.
Nei rari momenti in cui ha citato l’Africa in campagna elettorale, Trump ha lasciato intendere che la sua politica verso il continente potrebbe restare in linea con il passato, privilegiando il commercio rispetto agli aiuti. Ha promesso di rivedere i rapporti bilaterali e di intensificare la lotta contro il terrorismo in collaborazione con alcuni Paesi africani, ma senza specificare particolari strategie.
Anche il tema dell’immigrazione – altro cavallo di battaglia della sua campagna elettorale – potrebbe emergere con una politica più restrittiva rispetto al passato, nella concessione dei visti d’ingresso, tema che naturalmente preoccupa la diaspora africana negli USA che mantiene solidi rapporti con i Paesi di origine.
Trump sa bene di non poter ignorare l’Africa – e le enormi ricchezze celate nel suo territorio- che sta acquisendo un crescente peso economico e geopolitico nello scacchiere internazionale, il continente dove la competizione tra le grandi potenze globali si fa sempre più intensa e feroce: dovrà cercare di contrastare non solo l’attivismo economico-finanziario cinese, ma anche la penetrazione russa nei settori chiavi della sicurezza di molti paesi africani strategici, nonché l’espansione di altri competitors (India, Turchia, Brasile) sempre più presenti a sud del Sahara.
Ma questi obiettivi rischiano di andare in collisione con ciò che ha promesso al suo elettorato: una politica protezionistica che certo non faciliterà i rapporti commerciali.