di Federico Monica
Le linee tracciate sulle mappe hanno plasmato il destino dei popoli, specialmente in Africa, dove i confini coloniali, spesso arbitrari, ancora influenzano la vita quotidiana. Fra terre di nessuno, separazioni forzate e realtà di frontiera, il viaggio esplora l’artificiosità e l’assurdità delle barriere umane.
«Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini», diceva dalla sua navicella, nel 1961, Yuri Gagarin, il primo uomo a osservare il nostro pianeta dallo spazio.
Le vecchie cartine geografiche appese alle pareti delle scuole elementari raccontavano bene questa ambivalenza: da un lato la mappa politica con gli Stati di vari colori, dall’altro la terra “nuda”, con solo gli elementi fisici dei territori – due facce della stessa medaglia, l’una reale e concreta, l’altra virtuale e arbitraria, eppure oggi siamo così abituati a pensare il mondo sulla base di Stati e frontiere che ci dimentichiamo dell’artificiosità di queste linee.
Come si sa, l’Africa è un esempio emblematico: i confini del continente tracciati con un righello in epoca coloniale hanno un’estensione impressionante, circa 20.000 chilometri. Parte di questi si trovano in aree desertiche e inabitate, ma il fenomeno riguarda indistintamente tutti i Paesi: a esclusione delle isole e dei piccoli territori di Rwanda e Burundi, ogni Stato africano ha almeno una frontiera perfettamente rettilinea che si estende per oltre 50 chilometri.
Righe su una mappa che hanno determinato modelli di sviluppo differenti o la separazione di famiglie e gruppi etnici, come nel caso degli Ewè di Ghana e Togo, o degli Yoruba fra Nigeria e Benin, ma anche l’accorpamento “forzato” di popolazioni tradizionalmente in conflitto, complicando non poco gli equilibri interni e fra i diversi Paesi. Solo la saggia lungimiranza dei leader dell’indipendenza, che nella prima riunione dell’Organizzazione dell’Unione Africana si impegnarono solennemente a non modificare i confini coloniali pur riconoscendone l’assurdità, ha impedito una catena disastrosa di rivendicazioni e guerre che avrebbe insanguinato il continente.

Sessant’anni dopo, ci sono ancora frontiere chiuse e impenetrabili come quella fra Algeria e Marocco, o regioni frontaliere martoriate da traffici e conflitti irrisolvibili come il Kivu, ma anche interminabili terre di nessuno in cui i confini sono da sempre linee teoriche e incerte.
«Dal terzo baobab, su cui sono stati tracciati dei segni, il confine piega verso il punto n. 11 dove sorge un termitaio», riporta un passaggio del trattato anglo-tedesco del 1900 sulla frontiera fra Kenya e Tanganika, l’attuale Tanzania. Riferimenti a dir poco effimeri, che ancora oggi, nonostante posti di guardia, timbri e controlli doganali, ben raccontano l’inconsistenza e la porosità di molti confini.
Pochi mesi fa ho passato tre giorni in una cittadina di frontiera semisconosciuta nell’ovest del Mozambico; in poche decine di metri l’aria sonnacchiosa e immutabile dell’Africa rurale lascia il posto a caos, enormi camion carichi all’inverosimile, uomini armati, trafficanti, cambiavalute con pacchi incredibili di banconote fra le mani, baracchette di cibo a buon mercato e una distesa sterminata di hotel di infima qualità.
“Dai, muoviti, che andiamo in Malawi per cena!». «In Malawi? Ma non posso, non ho il visto…», rispondo titubante già presagendo problemi a non finire. Ai cancelli di frontiera un fiume umano si sposta avanti e indietro fra interminabili file di camion fermi senza che le annoiate guardie alzino un ciglio; mi confondo nella folla illuminata a malapena da qualche lampione. Oltre la barriera sgangherata, una strada piena di pozzanghere si perde nel buio, le lucine all’orizzonte sono i neon sfarfallanti di una piccola bettola affollata di gente. Chissà com’è il Malawi, mi chiedo, ma all’interno con sorpresa trovo la stessa musica, lo stesso cibo, la stessa lingua e persino gli stessi soldi di oltrefrontiera.

Al ritorno prendiamo una scorciatoia: un sentiero nella boscaglia fitta che a un certo punto si infila in un gruppetto di case. Al centro di un cortile, un grande cubo bianco brilla illuminato dalla luna come una strana scultura contemporanea. È il blocco di cemento che marca il confine fra i due Paesi: l’abitazione è in Mozambico, il pollaio e la cucina in Malawi. Resto per un attimo a cavallo di quella linea invisibile, una gallina passa qua e là, razzolando inconsapevole. Gli umani a volte sanno inventarsi cose assurde.