di Uoldelul Chelati Dirar
Riprendiamo la riflessione sul tema classicità e colonialismo. Questa volta ne consideriamo però il “rovescio”: come della retorica della classicità, o della letteratura italiana ottocentesca, si siano serviti, a modo loro, gli africani. Il caso Ghebreyesus Hailu.
La tradizione classica è stata frequentemente utilizzata nelle politiche coloniali sia nelle loro strategie di organizzazione del consenso nelle metropoli sia in quelle di assoggettamento delle popolazioni nelle colonie. Nelle politiche coloniali la classicità viene utilizzata come elemento di sostegno all’idea di una presunta superiorità dell’Europa sul resto del mondo e, conseguentemente, di una sua legittimità al dominio coloniale, presentato come una missione civilizzatrice. Come già visto, da questo punto di vista l’Italia non costituiva un’eccezione, anzi, soprattutto in epoca fascista questa tematica divenne un elemento centrale della retorica coloniale.
Se però la storia va sempre studiata come un processo dialettico in cui si ha una molteplicità di attori, occorre interrogarsi su quali fossero le reazioni dei colonizzati a queste strategie. Un osservatorio privilegiato è offerto dagli ambienti religiosi, poiché le istituzioni religiose esercitarono a lungo un vero e proprio monopolio della formazione scolastica dei “sudditi coloniali”. Va inoltre ricordato che la carriera religiosa costituiva anche una dei pochi percorsi accessibili a coloro che avessero avuto ambizioni di mobilità sociale. Contrariamente a quanto indurrebbero a pensare letture troppo schematiche del colonialismo, una nutrita schiera di giovani africani ha sfruttato con tenacia e determinazione questa limitata opportunità per uscire dalla restrittiva condizione di sudditi coloniali e affermarsi come prestigiose autorità spirituali, raffinati intellettuali e, in alcuni casi, anche come brillanti attivisti.
La formazione religiosa in contesto coloniale si affermò come il percorso privilegiato e più efficace per il completamento della formazione intellettuale di questa generazione e per la sua contaminazione cosmopolita. Nelle colonie italiane, dove le politiche scolastiche per le popolazioni indigene erano particolarmente restrittive, questo fenomeno generò un vivace processo di mobilità internazionale che vedeva i suoi centri di riferimento in Gerusalemme e Roma per i cattolici, e in Beirut e Uppsala per i protestanti. Ciò che caratterizzava quella generazione era il profondo radicamento nella ricca tradizione culturale della terra da cui proveniva e allo stesso tempo la piena padronanza della tradizione culturale europea all’interno della quale aveva ulteriormente arricchito il proprio sapere.
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Un esempio particolarmente raffinato di questo tipo di personalità ci è offerto dal religioso eritreo abba Ghebreyesus Hailu, autore, tra l’altro, di una formidabile novella in lingua tigrina, L’ascaro, dedicato al tema della guerra di conquista italiana in Libia e al ruolo delle truppe coloniali. La novella ci restituisce uno specchio eccezionale della vivacità culturale di quella generazione. L’autore infatti si muove disinvolto tra i due universi culturali in cui si è formato, senza mostrare alcuna forma di sudditanza. Il rapporto con i due universi è improntato al più assoluto equilibrio e interscambio, come evidenzia anche il suo frequente utilizzo di citazioni attinte da entrambi i mondi. Con il ricorso alle citazioni dotte della classicità ge’ez (quella della tradizione cristiana eritreo-etiopica) l’autore instaura un dialogo con i suoi lettori basato su un comune patrimonio culturale. Con il suo frequente ricorso a proverbi, canti popolari e immagini attinte dalla quotidianità della vita rurale, ci restituisce la ricchezza e le tante sfumature di questa realtà. La cultura popolare offre infatti un’opportunità unica di accedere al punto di vista degli esclusi dal potere coloniale e dai privilegi che ne derivano, aggirando i filtri che la cultura “dotta” a volte erige a protezione del potere.
Con le citazioni tratte dalla classicità greco-latina o della letteratura italiana dell’Ottocento, abba Ghebreyesus apre un diverso scenario. In questo caso si propone di mettere in contatto i suoi lettori con l’universo culturale europeo da lui approfonditamente studiato e vissuto. La classicità greco-latina e la letteratura italiana ottocentesca così come la modernità occidentale costituiscono quindi un universo culturale con cui l’autore ha piena familiarità, ma da una posizione di piena maturità che lo porta ad apprezzarne profondità e ricchezza senza esserne intimidito. Allo stesso tempo abba Ghebreyesus ribalta i codici della retorica coloniale utilizzando la classicità europea e anche la letteratura italiana dell’Ottocento per criticare la brutalità del colonialismo e allo stesso tempo per incitare i suoi compatrioti a maturare una più forte coscienza politica: a opporsi al dominio coloniale invece di farsene passivi servitori.
Da questo punto di vista, è particolarmente raffinato il richiamo che fa più volte nel testo All’Italia di Leopardi, lirica dal forte impegno civile in cui il poeta incita i compatrioti al riscatto contrapponendo la decadenza dell’Italia alla grandezza della classicità greca. In L’ascaro le parole di Leopardi diventano un richiamo agli eritrei perché capiscano che è venuta l’ora di opporsi al colonialismo e di maturare una coscienza anticoloniale orientata alla solidarietà con le altre popolazioni oppresse dal comune nemico italiano.