di Oumar Barry – Centro studi AMIStaDeS APS
In Sudan, la guerra civile che sta dilaniando il Paese è iniziata nel 2023, dopo il colpo di Stato che ha deposto il dittatore Omar al-Bashir nel 2019, a capo del Paese per oltre 30 anni, nel 2019. Per comprendere meglio le dinamiche del conflitto e il suo impatto sulla popolazione civile, abbiamo intervistato Yagoub Kibeida, rifugiato sudanese residente a Torino e figura di spicco nella difesa dei diritti dei rifugiati.
La guerra civile in Sudan, scoppiata nel 2023 dopo anni di anni di transizione e la caduta del dittatore militare Omar al-Bashir nel 2019, ha spezzato le speranze di una transizione democratica. Il potere è passato nelle mani di due generali rivali: Abdel Fattah al-Burhane, leader delle Forze armate sudanesi (FAS), e Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemetti, comandante delle Forze di supporto rapido (RSF). Dopo una convivenza fragile, lo scontro per il controllo del Paese è degenerato in un conflitto devastante. Migliaia di persone hanno perso la vita e altre centinaia di migliaia sono in fuga, mentre il Sudan sprofonda in una crisi senza precedenti.
Per capire meglio cosa sta succedendo, ho chiesto a Yagoub Kibeida, rifugiato sudanese residente a Torino e figura di spicco nel campo dei diritti dei rifugiati, di fornire una panoramica dettagliata sulla guerra in Sudan. Oggi Kibeida è il Direttore esecutivo di Mosaico – Azioni per i rifugiati e ricopre importanti incarichi a livello europeo e internazionale. È vicepresidente del Consiglio europeo per i rifugiati a Bruxelles e Presidente di un’organizzazione emergente che si occupa di rifugiati sfollati in Sudan, oltre a essere CEO per Global Aid Connection e Segretario dell’associazione UNIRE- Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli.
Come le dinamiche geopolitiche influenzano la situazione in Sudan e quali sono le responsabilità nel sostenere il popolo sudanese in questo periodo critico secondo lei?
La situazione in Sudan è in continua evoluzione, con sviluppi quotidiani che ne riflettono la complessità e che ci presentano un conflitto internazionale, con il coinvolgimento di circa 17 Paesi tra cui potenze regionali e globali. Dietro la crisi ci sono interessi economici legati al controllo delle risorse naturali, in particolare l’oro, che ha portato a definire la guerra come “guerra dell’oro”.
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) emergono come uno dei principali attori, sostenendo militarmente e diplomaticamente le milizie che stanno destabilizzando il Paese con un interesse diretto nella conquista e nel controllo delle risorse naturali sudanesi tra le quali l’oro, come detto, e i terreni agricoli. Questo intervento rientra nella loro strategia di diversificazione economica post-petrolifera ed è parte di un più ampio disegno geopolitico che li vede attivi anche in Libia, Yemen e nel Mar Rosso.
Il coinvolgimento degli EAU si intreccia con la presenza del gruppo paramilitare russo Wagner, che opera in Sudan, approfittando del caos per sfruttare le risorse minerarie. L’oro sudanese è stato un elemento cruciale anche per la Russia, in quanto permette al Paese di far fronte alle sanzioni internazionali. Nonostante la confusione e il disordine, il saccheggio delle risorse sudanesi continua senza ostacoli.
Altri attori regionali come il Sud Sudan, l’Etiopia, il Kenya e l’Uganda sono coinvolti a vari livelli: alcuni per ragioni economiche, altri per legami storici o alleanze politiche. Il Sud Sudan, con il suo storico conflitto contro l’esercito sudanese, ha origine da un lato da differenze politiche e territoriali, dall’altro da significativi investimenti nel Paese. L’Etiopia, il Kenya, l’Uganda e il Ciad hanno, a loro volta, legami economici con le milizie sudanesi e gli Emirati Arabi Uniti, che si traducono in sostegno politico e logistico.

Come sta affrontando la popolazione civile gli effetti di questo conflitto prolungato e dell’intervento di forze esterne?
Il conflitto in Sudan ha trasformato il sogno di una transizione pacifica verso la democrazia in un incubo di violenza e sofferenza. Il popolo sudanese, che ha iniziato una rivoluzione pacifica per rovesciare un regime dittatoriale islamista durato 30 anni, sperava di uscire dalla spirale delle guerre interne, come quelle in Darfur, Nuba e Sud Sudan. Questo desiderio di pace si è manifestato attraverso una lotta non violenta, in cui la popolazione ha resistito con determinazione nonostante la violenta repressione dell’ex dittatore.
Tuttavia, la situazione è oggi drasticamente cambiata. La guerra ha costretto milioni di sudanesi a fuggire, facendo sfollare più di 14 milioni di persone, di cui una parte significativa ha dovuto lasciare ripetutamente le proprie case in cerca di rifugio. La violenza sessuale, terribile arma di guerra, ha giocato un ruolo cruciale nel costringere la popolazione alla fuga. Le donne, violentate e vendute, sono diventate bersaglio di una guerra che non è solo politica, ma anche di distruzione morale della società sudanese. Il conflitto ha prodotto una crisi umanitaria senza precedenti, con un bilancio delle vittime probabilmente molto più alto delle stime ufficiali. Le statistiche delle Nazioni Unite parlano di 14.000 morti, ma una ricerca londinese suggerisce che i morti siano almeno 60.000 solo a Khartoum, senza contare le altre regioni.
La guerra non è solo una tragedia umanitaria, ma ha anche creato un’ulteriore spaccatura politica con alcuni gruppi che cercano di formare un “secondo governo” parallelo, alimentato dall’interesse di Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, i quali vedono il conflitto al servizio dei propri scopi geopolitici ed economici.
Sebbene la comunità internazionale abbia riconosciuto il genocidio, questa non ha agito efficacemente per fermare il conflitto o fornire sufficienti aiuti umanitari, lasciando il Sudan nel caos con milioni di rifugiati che affrontano una vita difficile nei Paesi vicini come Egitto, Etiopia, Sud Sudan e Ciad, dove l’assistenza è scarsa o inesistente. La mancanza di un intervento decisivo e mirato da parte delle potenze internazionali ha avuto un effetto devastante.
La guerra è diventata invisibile per molti, soprattutto per i media europei, che spesso ne ignorano le sofferenze. L’Africa continua a essere vista come una terra da sfruttare, piuttosto che come un luogo dove i diritti umani devono essere rispettati. La comunità internazionale ha la responsabilità morale ed etica di fermare la guerra in Sudan e di fornire un sostegno concreto ai rifugiati, ma la politica internazionale sembra essere indifferente, preferendo perseguire interessi geopolitici che non hanno nulla a che fare con la vita delle persone.
Come valuta il rapporto del Guardian sul coinvolgimento delle forze speciali ucraine in Sudan?
L’alleanza tra Sudan e Ucraina, nata all’inizio del conflitto in Sudan nel 2023, è emersa in un contesto geopolitico in cui le fazioni coinvolte cercavano di ottenere un vantaggio strategico. A quel tempo, i combattenti del Gruppo Wagner erano molto attivi e influenti. La situazione si è evoluta quando il presidente o il capo dell’esercito sudanese, di fronte alle difficoltà sul campo di battaglia, ha chiesto assistenza all’Ucraina, in particolare per quanto riguarda l’uso di droni da combattimento: una tecnologia che l’Ucraina stava impiegando con successo nelle operazioni militari contro le forze russe.
I droni utilizzati dall’Ucraina si sono rivelati particolarmente efficaci. Con costi contenuti – circa 400 euro a drone – e una velocità di 75 km/h, questi droni erano leggeri ma estremamente precisi, dotati di testate esplosive in grado di colpire gli obiettivi con grande accuratezza. Il loro utilizzo da parte dell’esercito ucraino era diventato un elemento chiave nelle operazioni militari e la loro efficacia aveva spinto l’esercito sudanese a chiedere un supporto diretto, non solo con l’invio di droni, ma anche con l’invio di soldati ucraini per addestrare le forze sudanesi all’uso di questa tecnologia.
L’intervento dell’Ucraina ha avuto un impatto significativo sulle dinamiche della guerra, poiché ha rafforzato l’esercito sudanese nella lotta contro le forze Wagner, un gruppo di mercenari russi con stretti legami economici e militari con la milizia (RSF). Tuttavia, la situazione è cambiata drasticamente dopo la morte di Yevgeny Prigozhin, il leader del gruppo Wagner. Con la sua morte, l’esercito sudanese ha cambiato strategia e ha deciso di contattare direttamente la Russia per ottenere assistenza militare.
Questo segnale di cambiamento di alleanze è stato accompagnato dalla richiesta di una base militare sul Mar Rosso, segnando una svolta significativa nelle relazioni tra Sudan e Russia. Il cambiamento dei legami strategici tra Sudan e Russia ha segnato la fine dell’influenza ucraina nella regione, mentre la Russia si è rafforzata come interlocutore privilegiato del governo sudanese. I negoziati con la Russia non hanno portato solo sostegno militare, ma anche l’opportunità per il governo sudanese di ottenere risorse e una maggiore presenza strategica nella regione. Di conseguenza, l’influenza dell’Ucraina è stata progressivamente marginalizzata, mentre la Russia ha assunto un ruolo centrale, con il potenziale per consolidare ulteriormente il suo potere nella regione e in Africa in generale.

Come valuta invece il recente rapporto dell’UNICEF sul caso degli stupri di bambini in Sudan e quali azioni ritiene necessarie per rispondere efficacemente a questa grave crisi?
Il recente rapporto dell’UNICEF e le dichiarazioni delle Nazioni Unite sulla situazione in Sudan hanno sollevato preoccupazioni circa la loro accuratezza e interpretazione delle dinamiche del conflitto. In particolare, non c’è stato alcun riferimento adeguato alla regolamentazione delle forze coinvolte nel conflitto, né una posizione chiara sulle misure da adottare per affrontare la crisi. Questo, come sottolineato, alimenta la disinformazione e l’errore di informazione, contribuendo a una narrazione imprecisa che potrebbe ostacolare la risoluzione della crisi.
Un elemento chiave è il confronto tra l’esercito sudanese e le milizie non regolari. In un conflitto così complesso, tale generalizzazione non fa che alimentare una falsa equivalenza tra due forze molto diverse, sia in termini di motivazioni che di comportamento sul campo. Infatti, le milizie non sono vincolate da alcun codice etico o regolamento, come invece lo sono le forze armate ufficiali. Spesso queste milizie si finanziano attraverso attività illecite come il traffico di droga e i saccheggi, e i loro membri non seguono alcuna disciplina. Le milizie del RSF, come sottolineato, fanno largo uso di droghe come Crystal Meth (metanfetamina in cristalli), una sostanza utilizzata per aumentare la resistenza fisica durante i combattimenti, ma che ha anche un impatto devastante sul comportamento e sull’aggressività dei combattenti.
La brutalità delle milizie si estende anche alla violenza sessuale, perpetrata come strumento strategico. L’uso dello stupro per distruggere il tessuto sociale, intimidire e costringere la popolazione a fuggire è un atto di guerra volto a spezzare i legami familiari e a sottomettere i civili. Le donne, in particolare, diventano bersaglio diretto, non solo come vittime di violenza, ma anche come mezzo per destabilizzare l’intera comunità. Inoltre, il coinvolgimento di milizie straniere, come quelle provenienti da Colombia, Niger, Repubblica Centrafricana, Ciad e altre regioni, accentua ulteriormente il carattere mercenario del conflitto. Questi combattenti, spinti principalmente dalla prospettiva di un guadagno economico, non hanno legami con la causa sudanese, ma servono chi offre loro il miglior compenso. Questa mancanza di motivazioni ideologiche, insieme alla totale assenza di un codice etico, contribuisce alla ferocia e all’anarchia del conflitto.
Infine, la narrazione che equipara l’esercito sudanese (SAF) alle milizie (RSF) non aiuta a comprendere le reali dinamiche della guerra e rischia di allargare il conflitto per mettere fine a qualsiasi mediazione e negoziazione. L’assenza di una posizione chiara da parte delle istituzioni internazionali contribuisce a mantenere incertezza e confusione, ostacolando gli sforzi per una risoluzione pacifica e un sostegno concreto alle vittime.

In che modo la posizione di Donald Trump sulla crisi in Sudan riflette le sue priorità politiche ed economiche?
Donald Trump ha sempre dimostrato una posizione politica estremamente pragmatica e diretta, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze morali o umanitarie delle sue azioni. La sua decisione di ridurre o eliminare gli aiuti umanitari destinati al Sudan è un esempio lampante di questa mentalità. Nonostante le tragiche condizioni umanitarie nel paese africano, Trump ha fatto capire chiaramente che gli interessi economici e geopolitici prevalgono su ogni considerazione etica o umanitaria.
La scelta di non intervenire a favore del Sudan, o di sospendere l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID), sembra essere una dichiarazione di disinteresse totale verso la sofferenza della popolazione sudanese. In effetti, la sua politica verso il Sudan può essere vista come un atto di “freeganismo” nei confronti di una crisi che ha risvolti tragici per milioni di persone. Inoltre, la questione della guerra in Sudan non può essere analizzata in modo isolato, ma deve essere contestualizzata nella più ampia strategia geopolitica degli Stati Uniti. Gli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali attori coinvolti nel conflitto sudanese, sono un alleato strategico degli Stati Uniti, con forti legami economici e significativi investimenti nel mercato americano. Trump, consapevole di questi interessi, non è disposto a sfidare la posizione degli Emirati né tantomeno a entrare in conflitto con Israele, che condivide una forte alleanza con gli Emirati.
La geopolitica, quindi, sembra guidare le decisioni degli Stati Uniti, suggerendo che la guerra in Sudan, pur avendo devastanti implicazioni umanitarie, è in gran parte determinata da equilibri di potere molto più ampi, che includono alleanze politiche ed economiche cruciali per gli Stati Uniti. La situazione in Sudan, quindi, non è una semplice guerra civile, ma un conflitto che si inserisce in una complessa rete di relazioni internazionali, in cui gli interessi geopolitici di Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele giocano un ruolo fondamentale.
Quali iniziative specifiche state prendendo voi sudanesi che vivete in Italia per fornire sostegno e assistenza ai connazionali colpiti dalle conseguenze del conflitto?
Come sudanesi, abbiamo creato un’organizzazione chiamataGlobal Aid Connectioncon l’obiettivo di mobilitare tutte le diaspore sudanesi presenti in Europa e fornire aiuti umanitari ai rifugiati sfollati in Sudan. Inoltre, ci impegniamo a sensibilizzare i politici europei sul conflitto sudanese, facendo advocacy e intensificando la diffusione di notizie per trovare soluzioni a questo conflitto. Lavoriamo anche per costruire la pace e promuovere lo sviluppo sostenibile anche dopo la guerra. Cerchiamo di produrre un cambiamento significativo e riconosciamo che, se non agiamo noi stessi, nulla si muoverà. Per questo motivo, stiamo facendo del nostro meglio.