di Marco Aime
A più di trentacinque anni dal suo assassinio, la figura del giovane capitano burkinabè continua a ispirare. «Piantare un albero è uno dei requisiti minimi per vivere in Burkina. E nel mondo»
Don Bosco Mullan è un importante produttore di media irlandesi e attivista per i diritti civili. È diventato un personaggio pubblico dopo la pubblicazione del suo libro sul massacro del Bloody Sunday del 1972, quando i soldati britannici spararono sui manifestanti per i diritti civili disarmati, uccidendone tredici. Le sue molte attività lo hanno portato recentemente in Burkina Faso, in un viaggio che lui stesso ha definito un «pellegrinaggio» al luogo di sepoltura di Thomas Sankara, il leader rivoluzionario i cui quattro anni (1983-87) al potere hanno trasformato il Burkina Faso da una delle nazioni più povere dell’Africa occidentale in un Paese di autosufficienza agricola, con un’alfabetizzazione di massa, programmi di vaccinazione, importanti riforme sulla ridistribuzione della terra e sulla parità di genere.
Toccato dalla visione di Sankara, Mullan ha tentato di erigere un monumento al rivoluzionario ad Addis Abeba, sede dell’Unione Africana. In una lettera indirizzata ad un amico, Mullan così immagina la statua: «Questo monumento raffigurerà Sankara che pianta alberi accanto a una giovane ragazza burkinabè, dimostrando la sua lungimiranza sulla conservazione dell’ambiente, il suo rispetto per la leadership femminile e la sua fede nella rinascita dell’Africa attraverso i suoi giovani e le generazioni future».
In effetti, Sankara fu uno dei più attenti e perspicaci leader africani e soprattutto comprese l’importanza della tutela dell’ambiente, tanto più fondamentale in un territorio fragile come quello saheliano. Molto prima di tanti leader occidentali, da visionario qual era aveva capito quali erano i costi economici e sociali che il suo Paese doveva sostenere a causa del degrado ambientale. Ecco perché uno dei pilastri della sua politica di sviluppo era mobilitare le persone per proteggere il proprio ambiente. Sotto il suo governo vennero avviate campagne collettive, e piantati milioni di alberi per fermare la desertificazione. Ogni evento, battesimo, matrimonio, era un’opportunità per piantare alberi. I politici venivano “costretti” a lavorare un giorno al mese nell’orto dell’Assemblea generale.
Ciò ha portato a una massiccia mobilitazione di persone che hanno compreso il significato e la portata di tale decisione: costruire un Paese con le proprie mani! Era l’idea chiave alla base della visione di Thomas Sankara. Che comprese anche il legame tra il modo di produzione e consumo capitalista e il degrado ambientale: «La lotta per gli alberi e la foresta è la lotta antimperialista. L’imperialismo è il piromane delle nostre foreste e delle nostre savane», disse in un discorso. Grazie a una gestione ponderata dell’acqua piovana, in tre anni il Burkina Faso riuscì a centrare l’obiettivo dell’indipendenza alimentare.
Gli attuali danni causati dal cambiamento climatico a causa delle emissioni di gas serra, derivanti dalla produzione e dal consumo dei Paesi capitalisti, hanno confermato le previsioni di Sankara. Tuttavia il suo Paese e il resto dell’Africa, che contribuiscono meno al degrado globale emettendo basse quantità di gas serra, potrebbero ancora pagare un prezzo elevato.
Significativo il suo discorso tenuto a Parigi nel 1986 in occasione della International Silva Conference for the Protection of the Trees and Forests:
«Otto milioni di burkinabè hanno visto morire le loro madri, padri, figlie e figli, con fame, carestia, malattie e ignoranza che li hanno decimati a centinaia. Con le lacrime agli occhi, hanno visto prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto l’ambiente deteriorarsi, alberi morire e il deserto invadere a passi da gigante. Si stima che il deserto del Sahel avanzi al ritmo di sette chilometri l’anno […] Da quasi tre anni il mio popolo, il popolo burkinabè, sta combattendo una battaglia contro l’invasione del deserto. Per quasi tre anni in Burkina Faso, ogni lieto evento – matrimoni, battesimi, premiazioni e visite di personaggi importanti e altri – è stato celebrato con una cerimonia di piantagione di alberi. Dieci milioni di alberi sono stati piantati sotto gli auspici di un programma di sviluppo popolare della durata di quindici mesi, la nostra prima impresa in attesa del piano quinquennale. Nei villaggi e nelle valli fluviali sviluppate, le famiglie devono piantare cento alberi all’anno ciascuna.
Il taglio e la vendita della legna da ardere sono stati completamente riorganizzati e ora sono strettamente regolamentati. Oggi, ogni città e villaggio burkinabè possiede un boschetto, facendo rivivere così una tradizione ancestrale».
Il sogno di Sankara è stato spezzato il 15 ottobre 1987, ma il sogno del giovane presidente ucciso non sembra essere tramontato. All’epoca di Sankara, la capitale del Burkina Faso, Ouagadougou, era contornata da una florida “cintura verde” di alberi. Una foresta rigogliosa che le passate generazioni ben ricordano. Alla scomparsa di Sankara e in seguito alla rapida crescita della città, seguì un lungo periodo di disinteresse. Nessuno si prese più cura delle piante, che vennero in parte dimenticate, in parte usate come discarica e in parte sfruttate per recuperare legna da ardere. Nel 2019 è però stato avviato un progetto di Mani Tese che prevede un impianto di irrigazione nel quartiere di Kossoghin e una cisterna per l’acqua piovana con 300 metri di perimetro irriguo che permetterà a un’associazione di oltre 40 donne di coltivare l’area. Inoltre, grazie all’aiuto di diversi attori locali, nella stessa giornata sono stati piantati nella zona oltre mille alberi, che avranno a disposizione un ampio bacino d’acqua per crescere e consentire così al bois di Ouagadougou di tornare a splendere come un tempo. Anche perché, come diceva Sankara: «Piantare un albero è uno dei requisiti minimi per vivere in Burkina, e noi aggiungiamo “nel mondo”».