Nel primo dei tre giorni di lutto dopo la strage di ieri di uomini della Guardia nazionale, in Tunisia è ora il momento del dolore, ma anche quello delle aspre polemiche, destinate a rendere ancora più arduo il cammino che le forze politiche, tra enormi difficoltà, stanno cercando di definire per dare una soluzione alla crisi politica del Paese.
Oggi, nelle città d’origine delle vittime del massacro, si sono svolti i funerali. Tutti in forma privata e tutti segnati dalla rabbia della gente per l’ennesimo tributo di sangue che lo Stato ha reso al terrorismo islamico, che, contrariamente alle ottimistiche analisi compiute a suo tempo dai vertici del partito confessionale Ennahda, ha attecchito e non soltanto nelle zone più emarginate del Paese.
Funerali partecipati, ma segnati dalle urla contro il governo, accusato di non sapere o volere tutelare i suoi uomini in divisa. Tanto che il padre di uno dei militari uccisi, il giovane tenente Socrate Charni, ha annunciato che denuncerà, quali corresponsabili dell’accaduto, i presidenti della Repubblica, dell’Assemblea costituente e del Consiglio dei ministri. E le grida, a Le Kef, hanno lasciato il posto alla furia che si è abbattuta sulla locale sede di Ennahda, assaltata e data alle fiamme, tra le grida di approvazione e gli applausi di centinaia di cittadini.
Anche il mondo studentesco si è unito a questo moto di rivolta, paralizzando l’istruzione in tutto il Paese, dai licei alle università. E a La Manouba – dove un preside di facoltà è stato processato per avere spintonato dei salafiti che avevano fatto irruzione nel suo ufficio perchè si era opposto alle studentesse velate – il confronto verbale, tra universitari laici e islamici (cui hanno dato manforte, come sempre, individui barbuti che con l’ateneo nulla avevano a che spartire), ha ceduto il passo a violenti corpo a corpo, sedati solo dall’arrivo, peraltro non tempestivo, della polizia.
In tutto questo il mondo politico tunisino sembra non trovare un punto di coagulo delle molte istanze che spingono per dare una risposta concreta alla crisi. La strage di ieri, paradossalmente, ha consentito al premier Ali Laarayedh di dilatare i tempi delle dimissioni, di cui s’attendeva in serata l’annuncio, con la motivazione che il Paese non può, in questo momento, privarsi di un esecutivo nella pienezza del mandato.
Un evento drammatico, la strage di Sidi Ali Ben Oun, ma che, politicamente, è stato una ciambella di salvataggio per un esecutivo che vede montare la protesta ovunque. Da ieri sera la piazza della Kasbah, sulla quale si affaccia il palazzo del primo ministro, si sta trasformando in una tendopoli, che ospiterà un sit in ad oltranza che sarà rimosso, dicono gli oppositori laici al governo, solo quando Laarayedh presenterà le dimissioni. E mentre le tende venivano issate, a Menzel Bourguiba, nel governatorato di Biserta, un gruppo di salafiti si sono scagliati contro una pattuglia di agenti, massacrandone uno e mandando in ospedale un altro. * Diego Minuti (ANSAmed).