di Federico Monica
Diverse metropoli africane stanno investendo su sistemi di trasporto collettivi come treni e metropolitane, ma nella maggior parte delle città al centro della pianificazione urbana c’è sempre il trasporto su gomma. Una visione sempre meno sostenibile, con gravi impatti non solo sull’ambiente ma sulla stessa società
Nelle scorse settimane Lagos ha inaugurato la sua prima linea metropolitana: una piccola rivoluzione per la megalopoli più grande del continente – si stima superi i 20 milioni di abitanti –, quotidianamente soffocata dal traffico. La linea blu, che dovrebbe fare il paio con la linea rossa in fase di completamento, si estende per 13 chilometri e dovrebbe essere in grado di trasportare 150.000 passeggeri al giorno.
La capitale economica della Nigeria non è la prima città africana ad essersi orientata verso il trasporto su ferro: già negli anni Ottanta Il Cairo si è dotato di una rete metropolitana, seguito da Algeri e Casablanca. A sud del Sahara, se si esclude il complesso sistema ferroviario e intermodale del Gauteng, le prime città a dotarsi di una metro leggera urbana sono state Abuja e Addis Abeba nel 2015, mentre Kampala, Dar es Salaam e Abidjan hanno già iniziato la costruzione di nuove reti, attraverso partnership con società cinesi, francesi o turche.
Quali gli impatti delle nuove infrastrutture sulla mobilità urbana? Sicuramente si tratta di effetti positivi, anche se l’entità dei benefici dipende da innumerevoli fattori come la frequenza e la regolarità delle corse e, soprattutto, dall’accessibilità dei prezzi di biglietti e abbonamenti anche alle fasce meno abbienti. Eppure, nonostante queste interessanti innovazioni, le città continuano ad essere pensate e trasformate in funzione delle auto e del trasporto su gomma, con enormi svincoli inestricabili, colate d’asfalto e nastri a più corsie spesso impossibili da attraversare senza rischiare la vita. In alcune capitali, addirittura, le reti ferroviarie esistenti sono state smantellate negli anni per lasciar posto a nuove strade.
Visioni discutibili non solo da un punto di vista ambientale ma anche rispetto alle statistiche, che stimano nel continente un numero di veicoli inferiore a 80 ogni 1.000 abitanti, contro i circa 650 dell’Unione Europea e gli oltre 750 dell’Italia; in Paesi come Somalia, Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan, poi, gli autoveicoli sarebbero meno di dieci per mille persone. Numeri che permetterebbero un ripensamento delle infrastrutture di trasporto, valorizzando sistemi collettivi e ricavando aree verdi, spazi pubblici e zone interamente pedonali, realtà sempre più difficili da trovare nelle città odierne.
Paradossalmente, invece, sono proprio i pedoni i grandi assenti dai progetti urbani.
La porzione largamente preponderante di chi si sposta quotidianamente nelle città africane deve fare i conti con l’onnipresenza delle auto, escluse soltanto dai quartieri informali, i cui vicoli sono troppo stretti o le strade troppo ripide. E non è tutto: la realizzazione o l’ampliamento di strade e superstrade rappresenta anche un fattore di esclusione sociale non indifferente, soprattutto per le migliaia di poveri urbani che si ritrovano con le abitazioni rase al suolo per fare spazio a nuove infrastrutture sempre più ampie.
Succede in tutte le grandi città: meno di un anno fa, a Nairobi 40.000 persone sono state costrette a lasciare lo slum di Mukuru kwa Njenga per fare posto a una nuova strada; pochi anni prima, ad Abidjan buona parte del quartiere informale di Boribana fu raso al suolo per realizzare il quarto ponte sulla laguna. Situazioni simili negli ultimi cinque anni si sono verificate in mezzo continente, ma è forse al Cairo che la corsa alle nuove strade assume i contorni più deliranti. Qui, non sono solo i quartieri più poveri a fare le spese della sete di asfalto ma anche e soprattutto un patrimonio storico unico al mondo come quello della cosiddetta “città dei morti”, l’antichissimo cimitero della capitale egizia dove, fra lapidi e imponenti mausolei, abitano centinaia di migliaia di persone.
Anche pochi giorni or sono le ruspe dell’esercito hanno abbattuto diversi mausolei funerari di epoca medievale. La risposta delle autorità alle proteste dei residenti sfrattati e di storici e intellettuali è stata quella di sempre: “Un quartiere di baracche o due reperti storici non possono fermare lo sviluppo del Paese”. Di quale sviluppo parliamo? Possiamo ancora permetterci di considerare l’asfalto un elemento di “sviluppo”?